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mercoledì 28 febbraio 2018

E' ARRIVATO IL BRONCIO

di Matteo Marescalco

E' arrivato il broncio, purtroppo per i numerosi genitori che, durante il weekend, porteranno i figli al cinema (si spera per loro che un film del genere non li faccia disaffezionare eccessivamente alla sala).

Terry è un ragazzino riservato e timido, abituato a trascorrere le vacanze estive nel parco divertimenti della nonna Mary. Con la sua fervida immaginazione, può viaggiare in terre favolose ed incantrare personaggi psichedelici, alberi che camminano, draghi pasticcioni ed orchidee parlanti. E chissà che non ci sia anche spazio per una principessa. Alla morte della nonna, tutto cambia. Il parco divertimenti attraversa un periodo difficile e arriva ad un passo dalla chiusura. Per Terry è difficile abbandonare il ricordo della nonna e dei tempi passati. Quando meno se lo aspetta, un incredibile congiunzione di eventi lo trasporta in una realtà parallela in cui un mago brontolone, Broncio, ha lanciato un incantesimo per evitare che gli abitanti ridano e siano felici e spensierati.  Riuscirà Terry a calarsi nei panni dell'eroe, salvare la principessa di turno, catturare Broncio, districare la matassa sul suo passato e restituire i sorrisi e la felicità agli abitanti del regno parallelo?

A dirigere il film è Andres Couturier per Anima Estudios, lo studio di animazione più grande ed importante dell'America Latina (si tratta anche del primo studio latinoamericano a produrre una serie originale per Netflix). Il regista ha individuato nella modalità psichedelica e colorata con cui sono stati costruiti i paesaggi del film ed i rimandi alla città di Londra uno dei punti più importanti del suo progetto. Eppure, secondo noi, l'animazione è decisamente un punto debole: ogni personaggio ed ambientazione sembra realizzato in pasta di zucchero, carattere che fa decisamente venire meno l'artigianalità, la ricerca di verosimiglianza o l'artisticità di moltissimi altri film di animazione ben più riusciti di questo. Risulterebbe difficile a qualsiasi bambino, visti gli alti livelli raggiunti dall'animazione oggi, credere in un universo del genere. Fede nel racconto e in ciò che si vede. La sua assenza è un grosso problema per questo E' arrivato il broncio. Un ulteriore limite risulta nell'esagerata somma di gag al limite del ridicolo e del grottesco che caratterizzano la narrazione e che finiscono per inficiare la tenuta del racconto. In tal senso, la coesione della struttura narrativa rimane vittima di momenti pensati per far ridere i più piccoli ma che raggiungono il mero obiettivo di sottrarre compattezza alla storia.

Insomma, è davvero difficile mantenere una certa fede nei confronti di questo film. In modo particolare a pochi mesi dall'uscita nelle sale di Coco della Pixar e ad altri pochi mesi all'uscita di L'isola dei cani. Target diversi ma, soprattutto, qualità totalmente differente.

domenica 25 febbraio 2018

RED SPARROW

di Matteo Marescalco

Va nuovamente ad una donna, fisico statuario e caschetto biondo, il compito di interpretare una sexy spia invischiata in pericolosi traffici tra Russia e Stati Uniti. In estate era toccato a Charlize Teron mettere a repentaglio la propria vita in una Berlino divisa dal muro; stavolta è la giovane Jennifer Lawrence ad interpretare le varie vite di Dominika Egorova, prima ballerina del Bolshoi che, a causa di un terribile incidente in scena, è costretta ad abbandonare il sogno che coltivava fin da piccola. La ragazza verrà incoraggiata dallo zio (pezzo grosso dei servizi segreti sovietici) ad entrare a far parte del programma governativo Sparrow, una scuola di addestramento che trasforma donne comuni in letali amanti e seduttrici, vedove nere incaricate di uccidere obiettivi indicati dal KGB. Tutto procede per il verso giusto fino al momento in cui Dominika si imbatte in un agente della CIA, di cui finirà per innamorarsi. Il destino delle due spie sarà irrimediabilmente compromesso.

Questo estenuante viaggio all'interno di diverse vite ha inizio dal Teatro Bolshoi. Gli echi de Il cigno nero risuonano nel corso del primo quarto d'ora del film. Dominika è una ballerina, prevalentemente inquadrata dal basso con l'obiettivo di allungarne il corpo. Questa modalità di inquadratura del fisico la dice lunga ed anticipa le scelte che il regista, Francis Lawrence, praticherà nell'arco del tempo restante. Il paragone con Atomica Bionda sorge spontaneo. Lì, ogni elemento era soggetto ad un processo di stilizzazione condotto sulla base di una lisergica ricerca estetica. Un piano sequenza fumettistico ed esagerato nella parte centrale del film sintetizzava l'intento puramente action che ne era alla base. Totalmente opposta è la modalità di sguardo che sta alla base di questo Red Sparrow. Contemplativo e pressoché privo di scene di azione, a tratti e per certi versi, il film di Lawrence ricorda la dilatazione del suo Io sono leggenda. Gli intrighi e le complicazioni non riguardano i movimenti dei corpi attoriali ed il dinamismo della scena ma, piuttosto, lo sviluppo del racconto.

Doppiogiochismo, tradimenti e colpi di scena dominano le quasi due ore e mezza di durata del film. Menzione speciale per Jennifer Lawrence. La diva americana cannibalizza la scena con corpo e sguardo. Affronta ogni situazione con il massimo della determinazione, dimostrando la forza del potere femminile. Una parentesi a parte è da dedicare alla trattazione dei corpi. Red Sparrow non risparmia scene di violenza e di tortura (i picchi di disgusto sono davvero elevati), accanendosi sul versante fisico dei personaggi, sottoposti ad una deriva pornografica che appare decisamente esagerata.

È consigliabile che gli stomaci non abituati a visioni del genere rimangano a casa; per tutti gli altri, il grande spettacolo è assicurato. 

L'ISOLA DEI CANI

di Matteo Marescalco
Secondo Gianni Canova: «… (Wes Anderson) ha messo in discussione l'autorità dei padri, con nonchalance, come se fosse ovvio, schierandosi dalla parte dei figli inadatti, incompresi ed impacciati. Dalla parte di Davide contro Golia».

Anche in questo nuovissimo L'isola dei cani (tra l'altro, fresco vincitore dell'Orso d'Oro alla Miglior Regia all'ultima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino) c'è un Davide e c'è un Golia. Siamo in Giappone, nell'anno 2037. Il dodicenne Atari Kobayashi ha perso i genitori in un incidente ferroviario e vive a Megasaki con il malvagio zio, sindaco della città. Il ragazzo è particolarmente affezionato a Spots, il suo cane da guardia. Tuttavia, a causa di una pericolosa influenza canina, viene emanato un decreto esecutivo che prevede l'esilio di tutti i cani su un'isola deserta adiacente, Trash Island, la discarica dei rifiuti di Megasaki, in cui troverà compimento una sorta di soluzione finale. Tra industrie farmaceutiche corrotte ed intrighi politici, il viaggio di Atari ha inizio a bordo di un biplano. La ricerca di Spots da parte del piccolo pilota (così è chiamato dai cani esiliati) sarà coadiuvata da Rex, Boss, Chief, Duke e King. A far da cornice alla vicenda è la millenaria storia di scontri tra cani e gatti narrata attraverso le stilizzazioni dei manga giapponesi.

C'è tanta carne al fuoco in questo L'isola dei cani, molte più traiettorie rispetto alle pur numerose che animavano i precedenti film di Wes Anderson e che faranno impallidire i numerosi detrattori del regista americano che considerano il suo cinema come una mera questione di cornici estetiche e movimenti sviluppati sull'asse verticale ed orizzontale, poco interessati, in realtà, ad una bilanciata coesistenza con il versante drammaturgico. Il racconto, similarmente a quel manifesto teorico che è Grand Budapest Hotel, summa irraggiungibile dello stile di Anderson, si snoda attraverso diverse epoche. Racconti, storie e narrazioni presentati per mezzo di numerosi flashback mostrano abbandoni ed innamoramenti. Ma dimenticate slow-motion e forti slanci emozionali. Questa volta, sotto la superficie estetica (che continua comunque ad essere immediatamente riconoscibile) si annidano tensioni e spinte centrifughe nuove. Il canone dell'animazione rivela una disperazione ed una violenza che finora o era stata contenuta o era esplosa in immediati squarci (le note di Needle in the hay che fanno da sottofondo al tentato suicidio di Richie Tenenbaum) ma mai era stata così tanto presente lungo tutto il percorso drammaturgico. Cani che si azzuffano e che si sbranano orecchie e pezzi di pelle, pericolosi ibridi animali-robot, operazioni a cuore aperto e vivisezioni mostrate per la preparazione di un piatto di sushi.

Il mondo a sé stante dell'universo di Wes Anderson, l'isola felice in cui trovavano spazio adulti immaturi e bambini fin troppo consapevoli di sé, si trasforma e si capovolge in un'isola-discarica governata dall'assenza di ragione (ma stiamo parlando di Trash Island o, piuttosto, della città di Megasaki?). L'isola dei cani è una fiaba costruita come un cubo di Rubik, un dedalo di percorsi e sensazioni che per la prima volta non parla solo di padri (putativi) e di figli ma di tolleranza e amore in senso molto più ampio. E lo fa attraverso le derive del linguaggio: nel film, il giapponese non è mai sottotitolato ma talvolta tradotto “in diretta” da interpreti o dispositivi elettronici. Ne consegue un'idea di umanità all'alba della civilizzazione in cui non contano le parole ma l'etica dello sguardo e dell'ascolto. I pilastri di questo nuovo mondo, da rifondare e costruire, sono rappresentati da infanzia ed animali. Un mondo in cui chi pensa come un adulto non può entrare e in cui l'unica salvezza consta nel tentativo di comprensione veicolato dal segnale universale di sentimenti e legami.  

lunedì 19 febbraio 2018

IL FILO NASCOSTO

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Cinemonitor: http://www.cinemonitor.it/36943-il-filo-nascosto-dalla-maison-pta-un-melodramma-di-straordinaria-forza-drammatica/

Cos'è questo fantomatico filo nascosto che dà il titolo all'ultimo film di Paul Thomas Anderson? Si tratta di una traiettoria immaginaria che unisce sogno e desiderio, nell'ambito di un percorso che si staglia lungo tutto l'arco del Novecento, il secolo del cinema. Ma è anche il simbolo di un rapporto sottocutaneo, delicato ma intenso, che nasce tra Alma, timida cameriera, e Reynolds Woodcock, il più importante sarto londinese degli anni '50.

Lo stilista ha costruito la sua monumentale carriera sull'arte della tessitura, abbigliando le famiglie reali, le star del cinema, le signore dell'alta società, scontrandosi spesso con la volgarità della vita mondana che frustra la perfezione dei suoi abiti. Nella direzione della sua magione, Woodcock è affiancato da Cyril, enigmatica ed affettuosa sorella, e da uno stuolo di anziane sarte che si occupano della realizzazione degli abiti. La sua vita è scandita da colazioni dal ritmo ciclico e da una dedizione totale al lavoro, attività scosse dal fantasma della madre, che lo tormenta giorno dopo giorno, e da una serie di cortocircuiti che lo stilista si concede sotto forma di messaggi nascosti nelle fodere dei vestiti. Costruire un rapporto con Alma vuol dire, fondamentalmente, inserire un corpo estraneo nella fantasmaticità della sua esistenza.

Priva di una particolare identità ed apparentemente disposta ad essere manipolata dal sarto, Alma, in realtà, nasconde un'intensità che non cessa mai di sorprendere, fino allo sconvolgente finale, in cui il fil rouge del melodramma si espande ed assume tinte orrorifiche. Nel percorso che la porterà a trasformarsi da musa a ribelle, la ragazza sfalda ogni certezza di Woodcock e si interpone tra lui e le sue ossessioni private. Con l'abilità degna dei più grandi sarti cinematografici, Paul Thomas Anderson si sposta dalle atmosfere lisergiche di Thomas Pynchon al controllo totale dell'industria della moda londinese degli anni '50. A partire da un denominatore comune: il vizio di forma dell'amore, che ubriaca ogni rapporto di potere (anche quello più scarnificato nell'ambito di una coppia) ed ogni modalità percettiva. L'osceno si allarga e si diffonde come un virus nel corpo di Woodcock fino ad assumere la fattezza di una malattia da bramare e, allo stesso tempo, allontanare.

Tra riferimenti al citizen Kane di Orson Welles ed al thriller psicologico di Alfred Hitchcock, passando attraverso Pigmalione e perturbante, Il filo nascosto è un capolavoro di perfezione, mai fine a sè stessa ma giustificata dall'aderenza alle barriere emotive erette dal suo protagonista. La narrazione reticolare dei precedenti lavori del regista scompare per lasciare il posto ad una struttura adamantina che ha due personaggi (e le loro ossessioni) al centro del discorso. Gli attori incarnano il sogno febbricitante di un cinema che, a dispetto della cultura digitale, ritorna con il suo immaginario di fantasmi e di spettri, di segreti e torbide passioni custodite in cuori fanciulli (Rosebud, la grande madre) e che consente di stringere a sé l'immagine del proprio desiderio.

sabato 17 febbraio 2018

LA VEDOVA WINCHESTER

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Cinemonitor: http://www.cinemonitor.it/36933-la-vedova-winchester/

Tra il 1999 ed il 2001, Il sesto senso (tratto da un soggetto originale) e The others (rilettura de Il giro di vite di Henry James) alzavano gli standard relativi alla realizzazione di una ghost-story. I due thriller superavano di slancio il banale obiettivo di terrorizzare lo spettatore, preferendo costruire una struttura attenta alle immagini ed al rapporto tra visibile e non visibile, l'ectoplasmatico per l'appunto. Modalità di percezione delle immagini e riflessione sul dispositivo cinematografico classico e moderno divenivano, quindi, il fulcro di una struttura narrativa poco focalizzata sui colpi di scena ma costruita su una sapiente evoluzione di ogni elemento portato in scena. Il fascino di questi due Mind Game Film risiedeva nel fatto che il First Time Viewer fosse immediatamente incoraggiato ad una seconda visione, volta alla scoperta della “fregatura” costruita dal regista. Tra fine ed inizio millennio, quindi, toccava a due thriller hollywoodiani edificare il concetto di intrattenimento e di suspense attorno ai meccanismi epistemologici dello spettatore.

A detta di Helen Mirren, protagonista de La vedova Winchester, il film diretto dai fratelli Michael e Peter Spierig è, più di ogni altra cosa, una ghost-story. In tal modo, l'attrice inglese rivendica una supposta superiorità su ciò che viene tradizionalmente ricondotto nell'alveo del genere horror. La domanda che ci poniamo è: tenendo come punti di riferimento le due ghost-story emblematiche di cui sopra, quanto La vedova Winchester può essere considerato aderente a quel sottogenere e non riconducibile meramente all'horror?

Le dinamiche narrative del film hanno nella Winchester House il fulcro della propria genesi. Si tratta di una gigantesca magione che potrebbe essere stata progettata da Escher ma che in realtà venne costruita ed ampliata ininterrottamente per 38 anni sotto le direttive di Sarah Winchester, imparentata con la fabbrica d'armi Winchester Repeating Arms Company. La storia vera vuole la vedova Winchester affranta per le gravi perdite familiari che la colpirono e convinta da un medium a spostarsi a ovest di New Heaven. Credendo di essere perseguitata dalle anime uccise dai fucili dell'azienda di famiglia, Sarah dedica giorno e notte alla costruzione di un'enorme magione progettata per tenere a bada gli spiriti maligni. Per indagare su questa sua ossessione, viene chiamato lo scettico psichiatra Eric Price. Le sue ricerche lo portano a credere che, probabilmente, non si tratta solo di una semplice ossessione.

Indispensabile motore per la realizzazione del film è stata Helen Mirren, qui al suo primo ruolo in un film horror. Il personaggio interpretato dall'attrice britannica vede la gente morta, è un mediatore tra mondo dei vivi ed universo ectoplasmatico. Nell'ambito della magione, la signora non è la sola anomalia: camerieri e addetti alla realizzazione dell'edificio sembrano condividere con lei tratti caratteristici che li rendono ambigui. Il problema che inficia la riuscita de La vedova Winchester, riducendo il film ad un horror da cassetta, risiede nei numerosissimi jump-scares che costellano il racconto e che finiscono per segmentarlo in scene a sé stanti, non inserite nel contesto di una solida struttura narrativa attenta alla storia ed ai conflitti dei personaggi. Porte che cigolano, corridoi poco illuminati, improvvise apparizioni e bambini da esorcizzare sono i condimenti che provano ad insaporire un piatto poco interessante. I tratti immateriali e fantasmatici non riescono mai ad elevare il film al rango di ghost-story ma rimangono annacquati tra le onde schiumose di un horror che mira più alla pancia che ad altro. Gli stessi dedali della magione sono soltanto un trucco mai al servizio della complessità del racconto, un artificio incapace di avviluppare lo spettatore al loro interno.

Ghost-story o insignificante horror da guardare per riempire una banale serata? Noi propendiamo per la seconda possibilità. 

giovedì 8 febbraio 2018

A CASA TUTTI BENE

di Matteo Marescalco

Pietro e Alba festeggiano i cinquant'anni di matrimonio nella villa familiare in cui hanno trascorso tanti bei momenti insieme. Per l'occasione, l'isola di Ischia (sospesa in un tempo altro) ospita i tre figli della coppia (Carlo, Paolo e Sara) con le rispettive famiglie. Un'improvvisa mareggiata, tuttavia, blocca l'arrivo dei traghetti e fa saltare il rientro previsto in serata, costringendo tutti a rimanere sull'isola e a fare i conti con loro stessi, con il loro passato, con gelosie mai sopite, inquietudini, tradimenti, paure ed inaspettati colpi di fulmine. E la tempesta mucciniana, anche con un fin troppo esplicito richiamo alla mareggiata che blocca i personaggi sull'isola, esplode con tutta la sua veemenza.

Dopo la parentesi americana iniziata al fianco di Will Smith e l'esplorazione dei territori adolescenziali con L'estate addosso, Gabriele Muccino torna in Italia con la detonazione dei suoi rapporti prediletti: quelli familiari. Tuttavia, a differenza che in Ricordati di me e L'ultimo bacio, in questo A casa tutti bene, la famiglia non è più un'ancora di salvezza da cui fuggire e verso cui approdare, nonostante tutto, uniti ad essa da un sentimento di amore e di appartenenza. In tal senso, uno dei personaggi più emblematici della vicenda è proprio quello interpretato da Stefano Accorsi, simbolo di quel nomadismo dei sentimenti che ha sempre caratterizzato il cinema di Muccino. Il suo punto di vista viene abbracciato all'inizio del film ed abbandonato successivamente a favore di un mosaico di sguardi che restituisce visioni diverse e, probabilmente, fin troppo schizofreniche.

Durante il pranzo in occasione dei festeggiamenti, tutto sembra andare per il verso giusto e i conflitti sospesi e tenuti a bada esplodono in tutta la loro forza a causa di un problema legato all'arrivo dei traghetti. Da quel momento in poi, Muccino confina i suoi personaggi sull'isola ed avvia un gioco al massacro che somiglia a Dieci piccoli indiani. Ovviamente, a morire saranno solo i sentimenti, sotto i colpi di urla e declamazioni di cui gli attori sono carichi a pallettoni. L'ipocrisia si nasconde dietro ai sorrisi e alle pacche sulle spalle e l'utopia irraggiungibile è quella di costruire una famiglia in cui la “normalità” sia la regola.

La macchina da presa sembra non fermarsi mai, provando a seguire le numerosissime traiettorie vitali dei personaggi e dei loro drammi, in preda ad una ipertrofia visiva e narrativa che, alla lunga, sfianca. È proprio in certi silenzi che A casa tutti bene trova la sua dolcezza, alle prese con un minimalismo che contraddice un po' gli assunti mucciniani ma che finisce per commuovere e colpire molto più dei momenti declamati. Se anziché spiegare ed urlare tutto, Muccino avesse gestito meglio i rapporti tra i personaggi e, soprattutto, i dialoghi e l'esposizione dei loro pensieri, ne sarebbe sicuramente scaturito un prodotto più bilanciato e controllato. Chissà, magari la consapevolezza finale del personaggio interpretato da Valeria Solarino potrebbe essere un indizio per uno nuovo tipo di sguardo che il regista romano potrebbe applicare a partire dal suo prossimo film. 

lunedì 5 febbraio 2018

BRIGHT

di Matteo Marescalco


Sono passati più di dieci anni da Io sono leggenda e dalla prima collaborazione con Gabriele Muccino, eppure Will Smith sembra continuare a percorrere quegli stessi binari solitari: training corporeo, afflato eroistico e costanti ricerche della felicità. Ma qualcosa è cambiato, questa volta.

Risale appena a Maggio, in occasione del Festival di Cannes, la presa di posizione di Pedro Almodovar contro Netflix e quella di Smith contro il regista spagnolo. In breve, il presidente di giuria riteneva quanto meno bislacca l'idea di inserire in concorso un film che poi non sarebbe andato incontro alla regolare distribuzione in sala. «Ciò non significa che io non sia aperto alle nuove tecnologie o non voglia celebrarne le nuove opportunità, ma finché avrò vita lotterò per difendere la capacità d'ipnosi con cui il grande schermo cattura gli spettatori» sosteneva Almodovar. Dalla parte opposta si situava proprio l'attore afroamericano, per l'occasione in veste di membro della giuria: «Ho dei figli di 16, 18 e 24 anni a casa. Vanno al cinema due volte a settimana e guardano Netflix. (…) A casa mia Netflix non è che un grandissimo beneficio, perché i miei figli guardano lì dei film che altrimenti non avrebbero mai visto». Insomma, immaginario da un lato e totale fruibilità globale dall'altro.

In quell'occasione, la piattaforma di video on demand portava in concorso gli ultimi film di Bong Joon-ho e di Noah Baumbach e preparava, da lì a pochi mesi, l'uscita in pompa magna del suo primo blockbuster, Bright, affidato alla direzione di un regista muscolare come David Ayer e alla scrittura di Max Landis (che su Netflix era già precedentemente sbarcato con Dirk Gently-Agenzia di investigazione olistica). 

FINAL PORTRAIT-L'ARTE DI ESSERE AMICI

di Matteo Marescalco

Dopo aver presentato la sua quinta regia a Berlino (in occasione dell'ultima Berlinale) e al Torino Film Fest, Stanley Tucci torna in Europa per un altro incontro stampa a Roma. Ancora una volta, il suo Final Portrait-L'arte di essere amici è il protagonista indiscusso della discussione con il pubblico.

Il piccolo film è ambientato nella Parigi del 1964. Si tratta di un particolare biopic che ha per protagonisti Geoffrey Rush ed Armie Hammer: i due impersonano Alberto Giacometti e James Lord, giovane scrittore americano in visita nella capitale francese. Il primo è uno dei maggiori artisti della seconda metà del secolo scorso, il secondo un dandy a cui è cara la vita da flaneur, tra salotti borghesi e ristoranti per pochi eletti. Il racconto concentra la propria attenzione sul rapporto sui generis che si viene a creare tra i due personaggi. Lord commissiona un ritratto a Giacometti ma la lavorazione che sarebbe dovuta durare pochissimi giorni, in realtà si estende oltre le due settimane di tempo, periodo sufficiente affinché lo scrittore americano venga a conoscenze della vita sregolata del pittore svizzero. Sempre ai limiti della decenza e dell'igiene, Giacometti è famoso per le sue opere incompiute, abbozzi che finivano puntualmente per essere distrutti e cominciati nuovamente da capo.

Tucci parte da una vicenda biografica ben precisa (quale può essere il rapporto tra due persone) per allargare il piccolo quadro a temi dai tratti universali. La macchina da presa utilizzata a mano tallona da vicino i personaggi e fornisce un modo per aggirare la ripetitività della situazione narrativa. A causa dell'insicurezza del pittore, l'entusiasmo con cui Lord chiese un ritratto a Giacometti si trasformò in noia e in disagio, dopo settimane di prove non andate a buon fine. Al di là delle questioni meramente relative agli scambi da commedia tra i due personaggi, la spina dorsale della vicenda è davvero enorme. La dinamica tra maestro e giovane testimone, la ricerca ossessiva alla base della realizzazione di un'opera d'arte considerata anche come malattia dell'anima, la sua fruibilità presso il pubblico, l'evoluzione della pittura al tempo della riproducibilità tecnica. Il regista accarezza ogni singola tematica per liberarsene in fretta, evitando di restare incagliato nei tratti da lezioncina scolastica che la struttura del film avrebbe rischiato di assumere ma, allo stesso tempo, evitando anche di puntare ad un qualcosa di più rispetto ad un mero dialogo tra due protagonisti (con l'inserto di qualche personaggio di contorno).

In tal senso, l'attore-regista abbraccia la via del bozzetto e della macchietta, probabilmente l'aspetto strutturale più semplice attraverso cui aggirare l'ostacolo. Insomma, niente di nuovo sotto il sole ma semplicemente un compitino svolto molto bene e senza particolari sbavature, privo però dell'irrequietezza che tanto si addiceva al personaggio portato in scena.