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domenica 25 giugno 2017

SEXY DURGA

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank 

Semplice on the road o viaggio alla scoperta della dimensione sacrale e primitiva di un racconto connesso alla mitologia indiana? Incarnazione di una divinità o ragazza in fuga da un segreto che vuole, a tutti i costi, nascondere?

Questi due enigmi sono il cuore pulsante di Sexy Durga, lungometraggio di Sanal Kumar Sasidharan, presentato in concorso in occasione della 53esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Sulle lost highways che costeggiano una serie di località dell'entroterra indiano, si consuma la fuga di due ragazzi (Kabeer e Durga) e il loro disperato tentativo di raggiungere una stazione ferroviaria per spostarsi verso il Nord dell'India. Lungo il loro tragitto, incontrano forze di polizia, una piccola banda di criminali reduce da una rapina e due uomini malintenzionati da cui riescono a fuggire con difficoltà. In contemporanea ai tragitti rettilinei compiuti dalla coppia in fuga, il moto ondulatorio e circolare di una processione sacra anima le strade di un villaggio del Kerala. In preda a danze baccantiche, alcuni fachiri si fanno trafiggere il corpo con degli uncini e partecipano, appesi a dei cavi, al rito Garudan Thookkam, forma d'arte rituale in ringraziamento alla Dea Kalì. 

venerdì 23 giugno 2017

CIVILTA' PERDUTA

di Macha Martini

Il cinema: continua ricerca di un sogno in una giungla sperduta.

Fotografia scura, tendente al giallo ocra. Inquadrature da specchi, di persone che si allontanano. Pellicola 35 mm. Uno stile inconfondibile: James Gray. Eppure, la Civiltà perduta non sembra affatto essere un film del regista dalle origini russe. New York è totalmente dimenticata, siamo a Londra all’epoca delle grandi esplorazioni coloniali. I personaggi dostoevskijani immersi tra luce e ombra, tra peccato, sofferenza e speranza? Niente da fare, neanche la minima ombra. Conflitto padre-figlio? Appena accennato. 

James Gray ha cambiato rotta, eppure ne è uscito comunque vincitore. 
Chiudete gli occhi. Cos’è un cineasta? Un sognatore, uno alla continua ricerca di una Eldorado, di un sogno a cui nessuno crede. Il regista newyorkese decide di lasciare i personaggi concettuali dei suoi precedenti film per affrontare un nuovo tema, il cinema stesso. Il cinema mascherato sotto la lotta di un esploratore, realmente esistito, nel trovare Z, la civiltà perduta. 
Fawcett, il protagonista di questa vicenda, già raccontata nel romanzo di Grann, dall’omonimo titolo del film, è l’alter-ego di Gray. «Io sono fatto così, se le persone mi dicono: -Non sarai mai in grado di fare un film come questo-, io mi sento in dovere di dimostrare che si sbagliano» dice il regista nel parlare della grande sfida produttiva che si mostrava essere il film (dovendo girare scene a Londra, ambientata però nella Prima Guerra Mondiale, e in mezzo alla giungla). Esattamente lo stesso sentimento che pervade Fawcett, che non può arrendersi, deve trovare Z, a tutti i costi. 
Un esploratore che ha la stessa stoffa di cui sono fatti i sognatori, ovvero, di cui sono fatti i cineasti. 

Non è un caso, infatti, che sempre la sua figura precedentemente abbia ispirato Conan Doyle nella stesura de Il mondo perduto, che a sua volta ha ispirato Jurassic Park e che, inoltre, sia stato lo spunto per la creazione del personaggio immaginario di Indiana Jones. Il personaggio, quindi, non solo può rappresentare l’emblema della sfida che un regista e un produttore devono affrontare per produrre un film (difficoltà pari all’addentrarsi in una giungla misteriosa abitata da natii, il pubblico, che possono apprezzarti o decidere di distruggerti), ma è anche lo stereotipo di tutte le storie di avventura e azione che hanno sempre fatto brillare gli occhi alle case produttrici.

Gray, però, elimina l’azione e l’avventura, optando per un escamotage tipico dei suoi film: fa entrare il pubblico dentro il personaggio, dentro il suo animo. Noi non vediamo più un film ma stiamo nella giungla e vogliamo trovare Z a tutti i costi, nonostante le peripezie. Siamo un esploratore, siamo un regista, giriamo scene e scene nella giungla e vicino a un fiume. 
«Quando comincio a sentire delle persone nel buio che urlano che il fiume stava per uscire», non sembra un grande problema «tanto saremo fuori di qui in poche ore. Sei minuti dopo il fiume ha improvvisamente inondato l’intero set in circa 45 secondi. Tutti ci siamo messi a correre verso le colline, afferrando le cineprese e le pellicole. Dopo due minuti, l’area in cui stavamo girando era completamente sotto l’acqua» (James Gray in un’intervista per l’ufficio stampa della Eagle Pictures). 

Questo significa essere registi ed esploratori. Questo è il sogno che il pubblico, grazie alla maestria di Gray, vuole vedere realizzato. Non è un film di Gray. Questo è un film sul cinema, una continua ricerca di un sogno in una giungla sperduta, che però solo un abile maestro come Gray, e un abile sognatore, avrebbe potuto portare a termine sino alla fine.

giovedì 15 giugno 2017

WAR MACHINE

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank

War Machine: 73 anni dopo aver marchiato i principali leader nazisti ed aver fatto detonare la Storia all'interno di una sala cinematografica, Brad Pitt torna in Europa nei panni di un ufficiale statunitense con l'obiettivo di reclutare altri “bastardi” per la sua nuova missione. Il territorio di guerra, stavolta, si è spostato in Afghanistan e Pitt interpreta il pluridecorato generale Glen McMahon, ispirato alla controversa figura di Stanley McChrystal, comandante delle truppe NATO in loco e rimosso dall'incarico un anno dopo a causa di un'intervista pubblicata da Rolling Stone, in cui McChrystal criticava aspramente l'amministrazione Obama. 

McMahon è un uomo tutto d'un pezzo che ha conquistato i suoi successi sul campo, a differenza dei molti burocrati «che hanno ottenuto il loro potere con il fascino e la seduzione», convinto che sia necessario «costruire cuori e menti di un'Afghanistan libera e prosperosa (…) grazie all'azione dell'esercito, in grado di dare ordine nel caos della guerra».
 
*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione//war-machine/ 

domenica 11 giugno 2017

MARIA PER ROMA

di Matteo Marescalco

Ecco arrivare le prime filiazioni de La Grande Bellezza
Dopo aver visto Maria per Roma di Karen Di Porto, presentato all'ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, appare ancor più fuori luogo l'affermazione del direttore artistico Antonio Monda che, in occasione della conferenza stampa di presentazione della Festa, paragonò il film a Lo chiamavano Jeeg Robot. Nulla di più lontano sul versante produttivo, estetico e concettuale. Maria per Roma, infatti, è arrivato nelle sale l'8 Giugno, distribuito da Bella Film, con un clamore mediatico pressochè nullo. 

Il film narra le peregrinazioni infinite durante una giornata qualsiasi di Maria David, aspirante attrice e key-holder per una agenzia che gestisce appartamenti in centro. Tra disavventure, provini, litigi con la madre, produzioni indipendenti da girare ed incontri con amici, Maria prova a barcamenarsi nella città che ha dato i natali a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. L'assenza di trama lineare e ben definita, a favore della costruzione frammentaria, è simile a quella del regista partenopeo, più interessato agli episodi e ai suoi personaggi che ad una coesione narrativa. 

La quotidianità di Maria, su ammissione della stessa regista, si basa fortemente sulle sue vicende private. I tratti autobiografici arricchiscono il film e gli donano una patina più vicina alla realtà dei fatti nonostante la Di Porto, come interprete principale, sfiori più volte l'over-acting ed il tono fiabesco complessivo. A dominare è l'ironia che viene perseguita ma che difficilmente riesce a ribaltare o, quanto meno, a bilanciare il contenuto disfattista di molti incontri. 

Gli stereotipi sono spesso costeggiati nella delineazione della fauna umana che popola le feste
romane, all'inseguimento di un sogno che può attuarsi solo in una città come Roma. E' un vero peccato che il cast sia gestito malamente e che la Di Porto dimostri una mediocrità di fondo nella messa in scena. Perchè il tono del film, nonostante le incertezze, è sincero e regala un finale catartico che, nella deriva dei suoi personaggi, li culla, circondandoli di una bellezza che non fatica ad essere trovata anche negli ambienti più improbabili.

LA MUMMIA

di Matteo Marescalco

A Tom Cruise, Johnny Depp, Javier Bardem e Russell Crowe è stato affidato il compito di riportare al cinema i mostri resi popolari dalla Universal tra gli anni '30 e i '50: la Mummia, Frankestein e la moglie, Dr. Jekyll e Mr. Hyde, L'Uomo Invisibile, Dracula e il Mostro della Laguna Nera. 

Il primo tassello dell'universo espanso condiviso della Universal (il Dark Universe) è stato diretto da Alex Kurtzman e vede Tom Cruise nei panni di Nick Morton, mercenario che collabora con l'esercito e che traffica in antichità. Nick, l'amico Chris e l'archeologa Jenny si imbatteranno nel sarcofago della principessa egizia Ahmanet che portò nel nostro mondo il dio della Morte, Seth. Riusciranno i nostri tre eroi, con l'aiuto dell'organizzazione segreta londinese capitanata dal Dott. Henry Jekyll, a contrastare l'avvento del Male nel mondo?

L'obiettivo basilare per la costruzione di questo Dark Universe è quello di volgere lo sguardo al passato per guardare meglio il presente. Le dinamiche action e comedy nel film vengono impiantate in un prologo di tutt'altro registro: l'Iraq contemporaneo abbonda di elementi tipici del war movie che, tuttavia, vengono presto abbandonati a favore di una trasformazione che accompagna La Mummia verso i binari più tradizionali dell'action movie. A differenza dell'Universo Marvel, che meglio di tutti ha capito dinamiche produttive e modalità realizzative ma che si accontenta di un divertimento superficiale, e di quello DC, teso ad analizzare il carattere divino di ogni supereroe, questo primo episodio del Dark Universe pone la propria linearità al servizio di una macabra origin story che fa leva sul corpo storico di Tom Cruise. L'attore cardine dell'action movie contemporaneo sopravvive ad esplosioni, inseguimenti, sparatorie e lotte ravvicinate. L'elemento analogico e viscerale è, ancora una volta, die hard

Erotismo, violenza, suggestioni visive, allucinazioni e divertimento sono i termini fondamentali del debutto del Dark Universe. A differenza del precedente adattamento del 1999 con Brendan Fraser, questo film di Alex Kurtzman dimostra una differente maturità lontana miglia dal fascino da luna park per ragazzini del film di Stephen Sommers. Questo risciacquo non può che aver fatto bene al leggendario mostro.

venerdì 2 giugno 2017

BAYWATCH

di Matteo Marescalco

Dwayne Johnson è il dio assoluto di Baywatch: del film e della spiaggia di Emerald Bay. Il suo Mitch Buchannon è un ex militare che lavora come bagnino, affiancato da un team di superuomini tutti muscoli (con l'eccezione dello sfigato e cicciotello Ronnie) e di superdonne in formissima e dalle tette che ballano durante ogni corsa in spiaggia (ma meno del previsto). Perchè al centro di questo film che porta al cinema la serie televisiva trasmessa dal 1989 al 2001 è, più di ogni altra cosa, il corpo maschile, mandato in scena senza la minima vergogna. 

Quello dell'ex wrestler trasformatosi in uno degli attori più pagati e redditizi del momento, una montagna di muscoli che fa sfoggio di sè stessa durante ogni prova fisica, inseguimento e persino in occasione delle scene più ironiche: Mitch, infatti, si assicura che ogni statua scolpita nella sabbia della spiaggia lo rappresenti dotato di organi genitali ben in vista; altrettanto centrale è il corpo di Zac Efron, l'ex ragazzino prodigio osannato dalle teenager in High School Musical, qui validissima spalla comica di Johnson, nei panni di Matt Brody, campione olimpico caduto in disgrazia, che non sa cosa sia il lavoro di squadra e che l'arco evolutivo provvederà a redimere. E, infine, il corpo di Ronnie: il ragazzo è grasso ma si applica e, come ogni nerd che si rispetti, avrà la sua occasione con la pupa del gruppo. Nella prima mezz'ora del film, è proprio Ronnie il protagonista di una gag che lo vede con il pene incastrato tra le fessure di un tavolo (inevitabile pensare al Ben Stiller di Tutti Pazzi per Mary dei fratelli Farrelly). 

Sembra sottinteso quanto sia infruttuoso scagliarsi contro un prodotto del genere, consapevole dell'elevato livello di trash che lo caratterizza. Risiede proprio in questa consapevolezza, nella capacità di Baywatch di giocare con sè stesso e con le aspettative degli spettatori (che nel film troveranno i Farrelly, una crime story abbozzata, riferimenti al precedente episodio, con un pizzico di Superbad di Judd Apatow), la qualità che rende il prodotto privo della benchè minima goffaggine. Il film di Seth Gordon è orgoglioso di essere tamarro, di trasferire l'estetica supereroistica di Fast & Furious sulle spiagge americane. I protagonisti credono in sè stessi, nel lavoro di gruppo, si scagliano contro l'edonismo individuale, infischiandosene di chissà quale eleganza nella struttura narrativa del racconto. 

Preso con consapevolezza, Baywatch non delude le aspettative. Fin dai meravigliosi titoli di testa, manifesto programmatico dell'operazione commerciale costruita sopra le spalle di Dwayne Johnson. Non è contro un cinema del genere (che porta a compimento ogni storyline, probabilmente ingenuotto ma sempre candido e in buona fede, fracassone ma dal cuore d'oro) che va indirizzato il nostro odio. Per quello, ci sono i molteplici prodotti freddi e privi di anima che affollano (inutilmente) le sale cinematografiche dall'inizio alla fine dell'anno.