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martedì 31 gennaio 2017

JACKIE

di Matteo Marescalco

Se c'è un regista che, negli ultimi tempi, sta conquistando il cuore e la mente dei cinefili più duri ed intransigenti, questi è, senza dubbio, Pablo Larrain. Classe 1976, habitué del circuito internazionale dei festival di cinema, Larrain, dal 2008 in poi, ha inanellato una serie di successi: Tony Manero, Post Mortem, No, El club e Neruda. Dice del suo mestiere: -Il cineasta è come un bambino con una bomba in mano che può esplodere da un momento all'altro in faccia a chiunque-. Il 2016 è stato un anno particolarmente soddisfacente per il regista cileno, che ha visto uscire nei cinema Neruda e Jackie, due biopic che scardinano e rileggono completamente le regole del genere.
Il secondo dei due è stato presentato all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il premio per la Miglior Sceneggiatura. L'orizzonte temporale narrato nel film consiste nei tre giorni intercorsi tra l'omicidio di John Fizgerald Kennedy, la sua sepoltura ed il dialogo/intervista tra Jackie e il giornalista Theodore H. White. 

Bastano le prime sequenze a stendere un manifesto programmatico del cinema di Larrain e di ciò che lo spettatore andrà a vedere in Jackie. -Perchè una storia sia vera, occorre scriverne?- è una battuta che Jackie fa al giornalista. Tema centrale di Neruda e di quest'altro lungometraggio è quello della narrazione, della Storia, della finzione e del loro inevitabile cortocircuito narrativo all'interno di un prodotto mediale. L'intero film è avvolto da un alone straniante che ha nei frequenti primi piani, che sembrano ingabbiare i volti degli attori, e nei movimenti di macchina avvolgenti il centro della propria cifra stilistica. Fino a che punto è possibile ricostruire e gestire la Verità?

Quello di Jackie all'interno della Casa Bianca è il percorso di chi ha visto la propria identità frammentarsi e cerca di recuperarla attraverso i fantasmi dei predecessori. In tal senso, ogni oggetto di cui tanto parla la first lady si carica di un significato simbolico che oltrepassa il semplice investimento affettivo che il senso comune vorrebbe affidargli. Percorso individuale e collettivo vanno di pari passo: dalla Camelot dei Kennedy alla fine dell'infanzia americana. Bobby Kennedy si preoccupa della fine del Vietnam e dei possibili meriti che si prenderà Lyndon Johnson ma Jackie va oltre: il suo obiettivo è fare di John Kennedy un'icona, attraverso l'apparato spettacolare del suo funerale, dare lustro all'ultimo barlume della sua Camelot. 

Chi è Jackie in questo biopic di Larrain? Un personaggio controverso, pieno di sè, debole, intransigente. Un fantasma che vaga, la cui verità è impossibile da raggiungere se non attraverso svariate interpretazioni personali. Il regista si dimostra assai abile nell'amalgama di sequenze di fiction e di filmati di repertorio, gestiti tramite notevoli raccordi di montaggio. Jackie è un labirinto privo di centro, in cui l'indagine su una figura storica si unisce a quella sulla prepotenza dei mezzi di comunicazione nella creazione di un'icona. La nostalgia del tempo che passa e dei fasti che furono ha nelle storie di dame e cavalieri il proprio riflesso naturale. Dimensione privata e pubblica si sovrappongono contribuendo ad alimentare il mistero su una figura umana impenetrabile e su un film che si attesta su altissimi livelli. 

T2 TRAINSPOTTING

di Matteo Marescalco

-(...) diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l'apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d'ufficio, bravo a golf, l'auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai-.

Nel lontano 1996, Trainspotting di Danny Boyle, che ancora aveva alle spalle soltanto Piccoli omicidi tra amici, irrompeva al Festival di Cannes come un prodotto destinato a raggiungere, nel corso di breve tempo, lo statuto di icona e ad imporsi prepotentemente nell'immaginario collettivo. Il finale del film, con il tradimento di Mark Renton nei confronti dei suoi amici, lasciava aperto un interrogativo sul futuro del ragazzo: sarebbe riuscito ad uscire dal tunnel dell'eroina e a scegliere effettivamente la vita? Se è vero che il cinema è in grado di scuotere le coscienze e di generare quesiti post-visione, la curiosità attorno all'ipotesi di un possibile sequel, ventilata nel 2013, ha raggiunto il culmine negli ultimi anni. A più di 40 anni, che fine hanno fatto Rent, Begbie, Spud e Sick Boy? Il primo, vent'anni dopo il famigerato tiro mancino, torna in Scozia per saldare il debito con gli amici. Obiettivo comune? Evitare Begbie, scheggia impazzita in cerca di vendetta.

L'anno scorso, un'operazione simile è stata compiuta da Ben Stiller, che ha portato in sala il sequel del suo Zoolander. Per quanto riguarda Trainspotting, l'asticella della difficoltà è nettamente più in alto. Perchè il tempo intercorso tra il primo episodio e questo sequel è maggiore rispetto ai due Zoolander e perchè, senza dubbio, il film di Boyle è più sedimentato nella memoria sociale. Sarebbe interessante prendere in esame due aspetti: le modalità attraverso cui il cinema di Boyle si è evoluto, dagli anni in cui le tecnologie digitali erano seminali fino ad oggi, ed il lavoro di rinnovo degli aspetti culturali e sociali di Trainspotting. Per quanto riguarda il primo punto, T2 può essere considerato come un compendio delle peggiori debolezze del cinema dell'autore inglese che gioca continuamente con l'estrema mobilità della macchina da presa, alternando punti di vista irreali ad estremi movimenti che frammentano il profilmico. Il montaggio include una miriade di clip tratte dal primo episodio che generano più di un cortocircuito narrativo e che provocano la caduta del film nella ridondanza e nel sentimentalismo più smaccato. Il digitale ha raggiunto una purezza d'immagine ed una pulizia che rendono l'operazione T2 Trainspotting anacronistica: è tutto troppo levigato e formalizzato per essere credibile. 

Nel complesso, l'operazione nostalgia delude perchè sembra vergognarsi di se stessa e, nonostante qualche guizzo, precipita nel baratro della propria tristezza, reso ancora più profondo dalle svariate indecisioni a livello visivo e da una scenaggiatura che non brilla per ritmo ed equilibrio. Se, da un lato, è una fortuna che T2 riesca a discostarsi dal materiale di partenza e a non ricalcarne troppo la forma (e tutto ciò, probabilmente, scontenterà i fan più accaniti), dall'altro, soffre di un inevitabile complesso di inferiorità nei confronti del primo episodio. Si ha l'impressione che quest'ultimo film di Boyle non sappia bene dove andare a parare, finendo per crollare su se stesso e sulle proprie ambizioni. 

venerdì 27 gennaio 2017

BILLY LYNN-UN GIORNO DA EROE

di Matteo Marescalco

E' decisamente strano (e straniante) Billy Lynn-Un giorno da eroe, l'ultimo film diretto da Ang Lee, noto per La tigre e il dragone, I segreti di Brokeback Mountain e Vita di Pi. Si tratta infatti di un lungometraggio dedicato ad uno scenario più che abusato: Billy è un soldato che, durante la guerra in Iraq, si è reso protagonista di un atto eroico per salvare la vita di un suo commilitone; nel 2004, insieme alla sua compagnia, viene invitato come ospite d'onore di una partita di football americano in occasione del Giorno del Ringraziamento. 

All'esatto opposto di una tematica inflazionata (quella dei reduci) si situa la tecnica realizzativa con cui è stato realizzato il film. Billy Lynn, infatti, è stato ripreso da Ang Lee e dal direttore della fotografia John Toll in 3D 4K a 120fps (i tradizionali film sono girati in 24fps con l'eccezione della trilogia de Lo Hobbit, girata da Peter Jackson in 48fps). Negli Stati Uniti, il film è stato proiettato nel formato nativo soltanto in poche sale, attrezzate per l'occasione a  costi elevatissimi. 

La presenza di attori generalmente votati a generi diversi (Vin Diesel, Steve Martin, Kristen Stewart) sembra suggerire il particolare impasto narrativo e spettacolare che caratterizza Billy Lynn-Un giorno da eroe. Ang Lee shakera i generi ottenendo una strana commistione che, in occasione di diverse sequenze, lascia allibito lo spettatore. Spettacolo, immagine e realtà sono termini che caratterizzano profondamente la filosofia di Jean Baudrillard e che, in relazione a quest'ultimo film del regista cinese, potrebbero essere tirati in ballo. In fin dei conti, tutta la cerimonia di celebrazione cui vanno incontro Billy ed il suo gruppo di commilitoni è fortemente connotata come prodotto spettacolare che, solo apparentemente, ha poco a che fare con una guerra mediatica, vissuta al televisore da milioni di persone. 

Non è un caso che i momenti in cui le identità di Billy e degli altri soldati vengono messe alla prova siano situati durante i festeggiamenti del Giorno del Ringraziamento. Coreografie spettacolari/mass-mediatiche ed esplosioni in trincea finiscono per avvilupparsi e dar vita ad un cortocircuito che è l'unico vero epicentro di un film che si mantiene equidistante da qualsiasi possibile soluzione. Il vero quesito riguarda l'utilità di questo Billy Lynn-Un giorno da eroe. Troppo superficiale e timoroso per restare a lungo ed insinuarsi nel tessuto sottocutaneo dei suoi fruitori. 

mercoledì 4 gennaio 2017

SING

di Matteo Marescalco


Durante l'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Chris Meledandri, fondatore e amministratore delegato della Illumination Entertainment, ha ricevuto un premio speciale per il suo straordinario contributo al cinema di animazione e, in quell'occasione, ha presentato alcune sequenze tratte da Sing, in uscita in questi giorni in Italia. Le nostre sensazioni, già allora, erano positive. La prima mezz'ora del lungometraggio lasciava intravedere, nonostante le ambientazioni non particolarmente ricercate e quanto mai tradizionali, una cura formale degna di nota ed un approfondimento caratteriale che, in effetti, si è rivelato essere una qualità in più di Sing.

Protagonista della vicenda è Buster Moon, un koala che si è innamorato del teatro all'età di 6 anni e che proprio al teatro ha dedicato la sua vita, divenendo proprietario di una storica struttura che il padre gli comprò con i risparmi di una vita di duro lavoro. Purtroppo per lui, però, nel corso degli anni, le forme dello spettacolo hanno subito dei drastici cambiamenti ed il teatro che gestisce è sull'orlo del fallimento. Ricercato dalla banca a cui ha chiesto un prestito e dai macchinisti che pretendono lo stipendio arretrato, Moon escogita un modo per salvare il suo teatro: un concorso canoro aperto a tutti gli abitanti della sua città con un ricco premio finale. Una serie di gag montate ad arte ci presentano i diversi personaggi: una casalinga disperata, un gorilla figlio di un criminale locale, un topolino pieno di sè appassionato di jazz fino ad un'elefantessa troppo timida per calcare la scena. Riuscirà questa compagnia molto assortita a portare in salvo Buster Moon e la sua idea di spettacolo?

Il riscatto di un uomo medio si trasforma in un inno alla vita e al gioco. Nonostante non brilli particolarmente, Sing colpisce per la passione che riesce a trasmettere allo spettatore e per la scrittura delle gag che, se da un lato spezzano l'andamento narrativo del film, dall'altro riescono a caricare su di sé tutti i momenti più comici e riflessivi di Sing. Dopo essere stato sottratto al cinema, il modello imprenditoriale dello spettacolo teatrale e del musical vi fa ritorno, contaminandosi con la slapstick, la screwball, il noir e anche il melodramma. Dimenticate la maturità a cui vi ha abituato la Pixar o l'animazione alternativa della Laika. La Illumination Entertainment ha sfornato un prodotto assolutamente mainstream che ha il pregio di intrattenere divertendo e facendo riflettere i più piccoli, tra allusioni nostalgiche e joie de vivre