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venerdì 30 settembre 2016

PRESENTATA LA PROSSIMA EDIZIONE DELLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA

di Matteo Marescalco

Questa mattina, è stata presentata a Roma la prossima edizione della Festa del Cinema di Roma, giunta al suo undicesimo anno di vita. Il Presidente della Fondazione Cinema per Roma Piera Detassis ed il Direttore artistico Antonio Monda hanno accolto la fiumana di giornalisti presente in sala Petrassi con, alle loro spalle, proiettata sullo schermo, l'immagine scelta per la campagna pubblicitaria di questa edizione della Festa: quella tratta da Cantando sotto la pioggia, con Gene Kelly che immagina di danzare con Cyd Charisse.

Antonio Monda, in relazione alla Festa, ha parlato di trasversalità, varietà ed internazionalità dei prodotti che verranno presentati, insistendo sul superamento dei confini spazio-temporali, garantito dal fatto che molti film saranno presentati in aree diverse dall'Auditorium Parco della Musica e, più o meno, durante tutto il periodo dell'anno. Primo evento della Festa sarà l'anteprima di American Pastoral, tratto dall'omonimo romanzo del Premio Pulitzer Philip Roth e diretto da Ewan McGregor. La presentazione avverrà la sera del 3 Ottobre al Cinema Barberini. Un altro evento da non perdere, soprattutto per i fan di Dan Brown, sarà l'anteprima di Inferno, diretto da Ron Howard, preapertura dell'11 Ottobre. Il 12 Ottobre toccherà a Pif, in Sala Petrassi, battezzare ufficialmente l'undicesima edizione della Festa con il suo In guerra per amore.

Tra i 45 film e documentari nella Selezione Ufficiale (di cui 4 nella sezione Tutti ne parlano e 3 in collaborazione con Alice nella città), quelli che, di sicuro, calamiteranno l'attenzione della stampa internazionale saranno The accountant con Ben Affleck e J. K. Simmons, The birth of a nation di Nate Parker, Florence Foster Jenkins di Stephen Frears e con Meryl Streep (che sarà anche protagonista di un incontro con il pubblico), Into the inferno di Werner Herzog, Lion con Nicole Kidman (sicuro frontrunner ai prossimi Oscar), Manchester by the sea con Casey Affleck, The Secret Scripture di Jim Sheridan, Snowden di Oliver Stone, Sole cuore amore di Daniele Vicari, True crimes di Alexandros Avranas e con Jim Carrey, La tartaruga rossa dello Studio Ghibli, Genius con Colin Firth, Jude Law ed ancora Nicole Kidman e un documentario sul regista Richard Linklater.

Tra gli incontri speciali, segnaliamo quelli con Tom Hanks, Ralph Fiennes, Juliette Binoche e Kristin Scott Thomas (in occasione della proiezione de Il paziente inglese), Michael Bublè, Bernardo Bertolucci, Paolo Conte, Daniel Libeskind, David Mamet e Viggo Mortensen.

Insomma, quantità e qualità per la prossima edizione della Festa del Cinema di Roma!

giovedì 29 settembre 2016

MINE

di Egidio Matinata

Un film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. Con Armie Hammer, Annabelle Wallis, Tom Cullen, Clint Dyer. Genere: Thriller, Guerra, Drammatico. Usa/Spa/Ita 2016. Durata: 106 minuti.

Un soldato sta tornando al campo base dopo una missione, ma, inavvertitamente, poggia il piede su una mina antiuomo. Non può muoversi, altrimenti salterà in aria. In attesa dei soccorsi, per due giorni e due notti, dovrà sopravvivere non solo ai pericoli del deserto ma anche alla terribile pressione psicologica della tutt’altro che semplice situazione.
Il film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro parte da un’idea di base molto semplice ed efficace, per allargare poi lo sguardo verso un’indagine psicologica più ampia del protagonista e della sua situazione. Costruito su una buona performance di Armie Hammer, con alcune scelte registiche davvero azzeccate e un ottimo uso della suspense, il film ha però delle lacune in alcuni personaggi di contorno e nel suo svolgimento, succube di una certa ripetitività di situazioni e battute che minano la compattezza del prodotto. La mina innescata da Mike Stevens non è altro che la goccia che fa traboccare il vaso, un espediente per affrontare il passato, il presente e il futuro; è ottima la scelta di creare diverse linee di conflitto partendo dal protagonista: egli infatti si trova a dover affrontare gli ostacoli che potrebbero portarlo alla morte (la mina e i pericoli del deserto) e il peso di un passato di violenza alle spalle, il tutto racchiuso nella sfera dello stereotipo del soldato americano (un individuo schiavo di regole e ordini).

Mine è quindi la storia di un uomo che deve riappropriarsi della libertà, che «deve andare avanti» come è spesso (forse troppo) ripetuto nei 106 minuti della durata. Da rivedere è certamente il personaggio del Berbero, interpretato da Clint Dyer; naturalmente ogni storia presenta dei mentori, degli alleati e dei messaggeri che andranno a interagire nel bene e nel male con il protagonista, ma è bene che lo facciano in una determinata maniera. E’ un personaggio che serve perché contribuisce alla crescita del soldato Stevens, e avrebbe dovuto avere la funzione di abbassare la tensione e regalare allo spettatore un sorriso, ma purtroppo il risultato è che sembra spesso fuori luogo, è eccessivamente stereotipato e macchiettistico.
In Mine si avverte la presenza di un gran lavoro dal punto di vista registico, come confermano anche i due autori parlando di un meticoloso lavoro sugli storyboard, ma c’era bisogno di curare maggiormente anche altri aspetti che avrebbero reso un buon film un grande film. Un fattore positivo è di certo il dato che due autori italiani giovani si trovano a capo di una coproduzione americana, spagnola e italiana di un certo livello, per un prodotto che sarà distribuito in maniera importante. Si spera che non resti un caso isolato.

martedì 27 settembre 2016

CAFE' SOCIETY

di Egidio Matinata

Un film di Woody Allen. Con Jesse Eisenberg, Kirsten Stewart, Blake Lively, Corey Stoll, Steve Carell. Genere: Romantico, Drammatico. USA 2016. Durata: 96 minuti.

Woody Allen
è un genio, uno dei maestri del cinema americano e mondiale, un autore che può avvicinarsi ai maestri che ha sempre omaggiato (Wilder, Lubitsch, Fellini, Bergman), quindi diventa difficile dire qualcosa che non sia già stato detto, scrivere qualcosa che non sia già stato scritto. Ed è anche difficile parlare singolarmente di un film, quando tutte le opere della sua carriera sono tasselli che vanno man mano componendo un gigantesco mosaico di parole, immagini, pensieri, volti e storie. Ma, dopo decenni di carriera e decine di film, l’eterno Woody non smette di stupire, regalando momenti di grandezza cinematografica e letteraria.

«Di che cosa stiamo parlando? Moralità, scelta, estetica, la casualità della vita?». La domanda che si poneva l’Abe Lucas di Joaquin Phoenix in Irrational Man può essere applicata a tutta la filmografia di Allen, anche a quest’ultimo Café Society, la cui storia d’amore agrodolce è ambientata negli anni ’30. Il film segue il viaggio di Bobby Dorfman dal Bronx, dove è nato, a Hollywood, dove si innamora, per poi tornare nuovamente a New York, in cui viene travolto nel mondo vibrante della vita dei locali notturni dell’alta società. E tanto basta, perché andare ad analizzare il film nella sua costruzione e nelle sue svolte narrative è, in questo caso, un lavoro tanto inutile quanto deleterio. Sta al pubblico essere accompagnato nelle svolte della vicenda e godere del racconto, delle tipiche battute brillanti, ironiche e pungenti, dei personaggi, sempre costruiti con impeccabile maestria (dai genitori di Bobby al fratello, dallo zio alla Veronica di Kirsten Stewart).

Ma ci sono anche degli elementi nuovi in questo film. La prima cosa che salta all’occhio è il lavoro sulla fotografia fatto da Vittorio Storaro; una fotografia che in alcuni punti è davvero la protagonista della scena, sia nella luminosa e calda Los Angeles che nella più algida e livida (ma molto più viva) New York. Una città legata indissolubilmente alla figura di Allen e che qui rivive nel suo fascino d’epoca; anche se ciò che fa il regista in questo caso è creare una sorta di mondo ideale: la New York di oggi, come scriveva David Byrne dei Talking Heads nel 2013, «sta perdendo l’energia creativa avuta per oltre un secolo perché sta diventando sempre più sfrenatamente una città per ricchi. Gli artisti non possono più abitarci, la middle-class ne è espulsa, il centro cittadino è più un luogo consacrato alla pubblicità e allo shopping che non a una vera esperienza di vita». In Cafè Society, New York è invece piena di vita e vitalità, è l’incontro di microcosmi diversi, di ribaltamenti e scalate sociali. Un mondo idealizzato, in cui lo sguardo di Allen è comunque malinconico, nostalgico e velatamente pessimista, ma pur sempre affascinato dalla magia. D’altronde, «la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo».

giovedì 22 settembre 2016

NERUDA

di Egidio Matinata

Un film di Pablo Larraìn. Con Luis Gnecco, Gael Garcia Bernal, Mercedes Moran, Alfredo Castro. Scritto da Guillermo Calderon. Fotografia: Sergio Armstrong. Cile 2016. Durata: 107 minuti.
 
«In Cile Neruda è nell’acqua, nelle piante, nell’aria. La mappa del Cile stessa è il ritratto di Neruda. Ce l’ho nel corpo, nei capelli, nella carne, nel sangue».
 
Siamo nel 1948: la Guerra Fredda è arrivata anche in Cile. Al congresso, il Senatore Pablo Neruda accusa il governo di tradire il Partito Comunista e rapidamente viene messo sotto accusa dal Presidente Gonzalez Videla. Il Prefetto della Polizia, Oscar Peluchonneau, viene incaricato di arrestare il poeta. Neruda tenta di scappare dal paese insieme alla moglie, la pittrice Delia del Carril, ma i due sono costretti a nascondersi.
«Ho lavorato per cinque anni su questo progetto, ho letto tre libri e infine fatto un film, ma nonostante ciò non so chi sia Neruda». Così ha risposto Pablo Larraìn ad una delle domande poste durante la conferenza stampa che ha succeduto la proiezione di Neruda, suo penultimo film. Il regista cileno ha catalizzato l’attenzione negli ultimi anni, imponendosi come uno degli autori emergenti (e ormai affermati) del panorama mondiale. Ma Neruda non è assolutamente un film biografico standard. Anzi, è totalmente l’opposto, un anti-biopic, come l’ha definito Larrain stesso, perché il poeta era «un personaggio troppo vasto, complesso e profondo da poter rappresentare in un film». Il film diventa così una poesia, un canto a Neruda e al suo universo, «un poema che abbiamo realizzato sognando che lui potesse leggerlo». E scrivere, parlare di quest’opera o provare ad analizzarla non può che essere un’azione che va a sminuire l’opera stessa. Il film di Larraìn stupisce dal punto di vista visivo e nella sua costruzione narrativa; il biopic diventa commedia nera, poliziesco, un film storico e (incredibilmente) un western, il tutto orchestrato come in un racconto di Borges. L’anima poetica e l’anima politica del personaggio si mescolano, si confondono e si scindono. Il personaggio di Gael Garcia Bernal è allo stesso tempo proiezione e creazione di Neruda (poeta) e coprotagonista e narratore onnisciente di Neruda (film).

La potenza letteraria della sceneggiatura di Guillermo Calderon è evidente soprattutto nel gioco dialettico che si instaura tra i due protagonisti, i quali si passano la palla della narrazione in tutto l’arco della vicenda. Come preda e cacciatore si rincorrono, cambiano ruolo e si trasformano, in questo viaggio che può essere definito come un road movie metafisico. Due scene rimarranno certamente scolpite nella memoria di chi vedrà il film: il dialogo nella seconda parte tra Delia e Oscar (potente, surreale, onirico) e l’epica scena finale tra le Ande innevate.
 
Vedendo i film di Larraìn e sentendolo parlare, ci si rende conto di quanto possa considerare il cinema come una ragione di vita, come un modo per leggere la realtà, oltre il realismo, oltre la Storia e le storie.
«Mi piace molto il cinema realista, se fatto bene ma io non so farlo. Non posso fare un cinema di quel tipo, a me commuove il cinema di atmosfera. Penso che un regista si debba fidare dello spettatore e delle sue capacità, che un film debba essere aperto, costruirsi con lo spettatore, lasciare vuoti e interrogativi, creare una dialettica tra il pubblico e lo schermo».

mercoledì 21 settembre 2016

LA SCELTA DI LEONE RISCUOTE CONSENSI A TORINO

di Matteo Marescalco

Abbiamo pubblicato, pochi giorni fa, un articolo su La scelta di Leone, documentario di Florence Mauro che sarebbe stato proiettato in anteprima al Cinema Massimo di Torino il 20 Settembre. E, in effetti, ieri sera, la passione civile e la ricerca di libertà di Leone Ginzburg sono tornate ad essere protagoniste nel capoluogo piemontese. Oltre quattrocento spettatori hanno affollato il Cinema Massimo per potere assistere alla proiezione del primo documentario dedicato alla storica figura dell'intellettuale antifascista.

Presenti in sala tutte le personalità più vicine a Ginzburg, a cominciare dal figlio Carlo, gli eredi di Giorgio Agosti, Paola e Aldo, la comunità ebraica, Ernesto Ferrero, direttore uscente del Salone del Libro dopo i molti anni passati alla casa editrice Einaudi, Malcolm Einaudi della Fondazione Giulio Einaudi, Andrea Bobbio, erede di Norberto, i rappresentanti dell’Unione Culturale Antonicelli, delle Fondazioni Nocentini e Revelli, dell’Istituto Piemontese per la Storia e la Resistenza e della Società Contemporanea e gli alunni e docenti dei principali licei torinesi a cominciare dal Liceo Massimo D’Azeglio dove Ginzburg si è formato. La proiezione è stata introdotta da Paolo Manera, Presidente della Film Commission Torino, la produttrice Enrica Capra per GraffitiDoc e la regista Florence Mauro, e si è conclusa con un dibattito moderato da Ernesto Ferrero insieme a Paola e Aldo Agosti, Giovanni De Luna e alla regista del documentario.

Ernesto Ferrero: «Sono felice di vedere un pubblico così ampio a rendere omaggio a un gigante del Novecento. Leone ha fatto parte di un gruppo di ragazzi che ha affrontato la repressione di un regime anche fisicamente con la prigione e che ha pensato di costruire una casa editrice per mettere insieme il dopo, di cui ancora mi stupisce la lungimiranza, la lucidità dello sguardo. Rimango senza parole se penso che erano ragazzi che, all'epoca, avevano vent'anni».

Florence Mauro: «Dopo aver incontrato dei ragazzi dell'università, volevo raccontare come la cultura possa diventare uno strumento e un elemento di resistenza».

Carlo Ginzburg: «Di mio padre Leone ho amato, come nel documentario traspare, come
l'uomo di cultura e il politico siano sempre stati intrecciati e non sia mai stato un dilemma scegliere tra l'uno e l'altro. Ringrazio Florence e chiunque abbia contribuito a realizzare questo documentario».

Paola Agosti: «Io conoscevo Leone dalle parole di Natalia e dai ricordi di mio padre, per capire poi nel tempo la grandezza della sua figura che trovo particolarmente adatta per spiegare ai giovani un periodo storico così significativo per l'Italia. Quella generazione di intellettuali ha reso possibile un futuro migliore ai ragazzi che sono venuti dopo».

Aldo Agosti: «Ciò che affiora in questo bellissimo documentario è la straordinaria capacità di Ginzburg nella leadership. Mi domando cosa sarebbe stata la sua vita se non fosse stata troncata così presto».

lunedì 19 settembre 2016

IN ARRIVO AL CINEMA LA SCELTA DI LEONE

di Matteo Marescalco

Martedì 20 Settembre alle ore 20:45 al Cinema Massimo di Torino, la regista Florence Mauro presenta il documentario La scelta di Leone, dedicato a uno dei principali intellettuali e antifascisti del Novecento, Leone Ginzburg.

Nella Torino degli anni '20, un gruppo di compagni di liceo, composto da Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, lotta contro l'ideologia fascista, trasformando le loro figure in fondamentali per la cultura italiana. Leone, futuro marito di Natalia, spicca da subito per la straordinaria precocità intellettuale e passione civile. Scrittore, traduttore, saggista e fondatore a 24 anni con Pavese ed Einaudi dell'omonima casa editrice di cui diventa direttore editoriale, è uno dei protagonisti dell'antifascismo con la sua intensa attività militante per cui pagherà con la prigionia, il confino, la tortura e la morte a neanche 35 anni.

Il racconto della parabola della sua vita diventa, per la regista, il contrappunto a domande che riguardano anche il nostro presente. «Al di là del racconto di una vita, il film propone problematiche profondamente universali e particolarmente attuali: l'essere giovani di fronte alla Storia, la lingua come atto identitario e politico, l'articolazione delle parole e del potere quando la Cultura e la Memoria di un Paese sono chiamati in causa». Grazie a una trama di foto, repertori d'epoca, documenti e luoghi, il film ricrea l'atmosfera dell'epoca in cui quel gruppo di diciassettenni ha saputo creare un'alternativa al fascismo e sa restituirne l'attualità unendo immagini d'epoca a immagini in bianco e nero della Torino di oggi, suoni del passato a conversazioni recenti con studiosi e docenti universitari. In questo suo legare passato e presente, il documentario riporta alla dimensione della memoria e della rielaborazione storica di un ventennio che ha segnato il futuro del nostro Paese. La regista, già autrice di un volume su Leone Ginzburg, ha detto: «Spero di rimettere, con questo film, una parte di storia al centro del dibattito, dibattito che, si sa, in Italia non c'è sempre stato».
Il documentario è prodotto da GraffitiDoc e Zadig per ARTE, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, e distribuito da Cinecittà Luce.

Per contatti: info@graffitidoc.it e ghigigiulia@gmail.com

venerdì 16 settembre 2016

EWAN MCGREGOR A ROMA PER PASTORALE AMERICANA!

di Matteo Marescalco

Il 3 Ottobre, gli attori Ewan McGregor e Jennifer Connelly presenteranno, al Cinema Barberini di Roma, Pastorale Americana, tratto dal romanzo di Philip Roth di cui McGregor ha curato anche la regia della trasposizione. Il film è stato presentato all'ultima edizione del Toronto International Film Fest e ha riscosso pareri contrastanti.

Pastorale Americana narra le vicende di Seymour Levov ponendo attenzione sulla sua famiglia e sulla storia recente degli Stati Uniti d'America. Con questo romanzo, Roth ha vinto il Premio Pulitzer nel 1998.

NOI SIAMO IL FUTURO, WE ARE THE FUTURE, SOMOS EL FUTURO

di Matteo Marescalco

Cinefili di tutta Europa in cerca di un un'occasione da cogliere al volo? Ecco la vostra possibilità!
Martedì 20 Settembre, alle ore 11:00, presso l'ex Vetreria Sciarra, in Aula Levi, sede del Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo della Facoltà di Lettere della Sapienza Università di Roma, si terrà la presentazione del bando europeo Italia-Spagna per giovani talenti del cinema e dell'audiovisivo. Si tratta del primo bando promosso da un singolo Paese membro rivolto all'intera Unione Europea. L'iniziativa consente ai giovani di accedere al mercato internazionale dell'audiovisivo attraverso il finanziamento alla sceneggiatura e alla regia di cortometraggi ed è promossa dal MiBACT -Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo- e dalla Roma Lazio Film Commission. Intervengono il Rettore Eugenio Gaudio, il direttore del Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo Marina Righetti, l'onorevole Gabriella Carlucci, il direttore generale del MiBACT Cinema Nicola Borrelli e il Presidente della Fondazione Roma Lazio Film Commission Luciano Sovena.

Sia il regista sia lo sceneggiatore che presentano la sceneggiatura dovranno possedere i seguenti requisiti:
⦁ età compresa tra i 18 anni compiuti e i 26 anni non compiuti alla data di scadenza del bando (15 Novembre 2016);
⦁ essere residenti in uno dei 28 Paesi dell'Unione Europea o in uno dei Paesi candidati o potenziali candidati;
⦁ non aver partecipato alla scrittura o alla regia di opere cinematografiche o audiovisive che abbiano avuto diffusione presso i principali canali di distribuzione.

Il bando è finalizzato alla selezione di una sceneggiatura originale per cortometraggio di natura narrativa non documentaristica e di durata compresa tra 15 e 60 minuti. Tutte le domande dovranno pervenire via mail, entro le ore 14:00 del 15 Novembre, all'indirizzo bandoitaliaspagna@beniculturali.it

Il bando completo è consultabile su Cinema.beniculturali.it.
Sito web: http://www.cinema.beniculturali.it/

giovedì 15 settembre 2016

PETS

di Matteo Marescalco

Il 2005 ed il 2009 hanno sancito il definitivo riconoscimento "istituzionale" del cinema di animazione: il Leone d'Oro alla carriera a Hayao Miyazaki e a John Lasseter e al gruppo Pixar hanno simboleggiato lo zenit di questo modo di fare cinema che attrae grandi e piccini. Sempre nel 2009, Up di Pete Docter ha aperto fuori concorso la 62esima edizione del Festival di Cannes, la principale mostra di cinema al mondo. Nel caso in cui fosse necessario individuare l'apice dell'animazione degli ultimi anni, chi vi scrive sceglierebbe, senza dubbio, il 2009.

Da quell'anno è passata molta acqua sotto ai ponti, la Pixar ha realizzato ben quattro dei cinque sequel della sua storia e ha dovuto affrontare la crisi di idee del triennio 2011-2013, complice il momentaneo passaggio alla live-action di Brad Bird ed Andrew Stanton, storici membri del gruppo americano. Il maestro dell'animazione giapponese, infine, ha annunciato il ritiro dalle scene per la mancata conciliazione tra i lunghi tempi di realizzazione di un lungometraggio e l'età ormai avanzata.
Tra i grandi nomi dell'animazione digitale degli ultimi anni, si è inserito a gran voce anche quello di Chris Meledandri, che ha ricevuto un tributo speciale in occasione dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia (leggete anche gli articoli sui film più amati ed odiati). Meledandri è noto per essere stato produttore esecutivo della 20th Century Fox Animation e dei Blue Sky Studios, noti per la realizzazione della saga de L'era glaciale. Nel 2007, ha fondato la Illumination Entertainment, che ha portato al successo con Cattivissimo me e con le varie "espansioni". A Venezia ha presentato, in anteprima nazionale, Pets, oltre ai primi 20 minuti di Sing, prossimo lavoro in uscita nel 2017 (che annovera le voci di Matthew McCounaghey, Scarlett Johansson, John C. Reilly e di Reese Witherspoon).

Il plot di Pets è basato sull'idea di base di Toy Story non riferita, tuttavia, ai giocattoli ma agli animali
domestici. Ebbene, cosa fanno gli animali domestici mentre non c'è nessuno in casa a guardarli? La risoluzione dell'enigma è affidata a Max e ai suoi amici antropomorfizzati che, lungo tutta la durata del film, riescono a strappare agli spettatori sorrisi ed applausi. L'animazione della Illumination non ha la presunzione nè la volontà di essere originale ma di muoversi lungo binari collaudati, provando ad oliarli un po'. Tutto è già visto e riconosciuto e, nonostante omaggi a La finestra sul cortile, Lilli e il vagabondo, Grease e Il silenzio degli innocenti, il pubblico di riferimento resta quello infantile. Perchè se la perfezione estetica ha raggiunto livelli davvero elevati, altrettanto non si può dire della scrittura. Ma non è il caso di farne una colpa a Meledandri e co, come già detto, gli obiettivi sono altri e una sicura fonte di ispirazione è la slapstick comedy: un genere di commedia in cui a contare sono più le gag fisiche che la fluidità della scrittura. L'intero film è al servizio dei singoli personaggi, il cui studio delle personalità è approfondito, messi in primo piano rispetto alla narrazione. Risate e divertimento per un pomeriggio con i propri figli. Cosa chiedere di più? Per altro, ci sono Lasseter e Miyazaki.

mercoledì 14 settembre 2016

ELVIS & NIXON

di Emanuele Paglialonga

A pochi giorni dalla chiusura di Venezia 73 (leggete gli articoli sui film amati e su quelli odiati, ndr), si appresta ad arrivare nelle sale italiane Elvis & Nixon di Liza Johnson: un biopic che racconta per l’appunto l’incontro fra l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America (parliamo del dicembre 1970) e la rockstar più famosa del pianeta.

Anche a Venezia sono stati presentati due biopic riguardanti personaggi politici, dedicati ad un lasso di tempo relativamente ristretto: Jackie di Pablo Larrain con Natalie Portman, e The Journey di Nick Hamm con Timothy Spall e Colm Meaney. Il primo si sofferma sui tre, quattro giorni successivi all’assassinio di JFK dal punto di vista della vedova Kennedy; il secondo su un viaggio forzato che due politici irlandesi di schieramenti opposti si trovarono a compiere, durante il quale avrebbero dovuto cogliere l’occasione di riportare la pace in un’Irlanda tempestata da scontri anarchici.
Fra i due film sopracitati (il primo era in Concorso, l’altro Fuori) ne è uscito vincitore senza dubbio The Journey, che ha raccontato con la sua semplicità il viaggio di due vecchie cariatidi, nemici da lungo tempo, attraverso una scrittura equilibrata e onesta: personaggi credibili, con le loro motivazioni, battute azzeccate, un ottimo Timothy Spall. Tutta la storia del loro viaggio è stata ovviamente inventata: nessuna traccia di quello che si dissero mentre attraversavano boschi e strade deserte in un pomeriggio di pioggia.
Larrain si è soffermato invece sulla figura della First Lady, sul suo non essere più nessuno una volta perso il marito, e sui suoi rapporti con la stampa e con il popolo americano in un periodo evidentemente delicato. Un altro dietro le quinte. Mezzi biopic quindi. Bene, Elvis & Nixon si colloca esattamente in questo solco. 

Il 21 dicembre del 1970 avvenne l’incontro tra queste due figure, motivato dalla voglia che Presley aveva di rendere servigio alla nazione, per diventare una specie di agente segreto e contrastare il degrado, il traffico di droga eccetera. Il film della Johnson inventa quindi un dietro le quinte: anche in questo caso, come per il viaggio di The Journey, nessun documento, nessuna registrazione. Solo una foto. Un film che si presenta in locandina come Il più rock dell’anno e che mette insieme nelle vesti e negli accessori di Elvis il bravo Michael Shannon (eccelso nel Nocturnal Animals di Tom Ford in Concorso a Venezia), e, nei panni di Richard Nixon, Kevin Spacey. Peccato che questo biopic si riveli essere sostanzialmente pretenzioso e inutile. Inutile perché non riesce a raccontare nulla di vagamente interessante; pretenzioso perché  impiega circa un’ora e dieci per arrivare al fatidico incontro fra i due, che occupa nel film non più di quindici, venti minuti. Fino ad allora, e anche oltre, il plot lo si può riassumere con queste parole: Elvis vuole un distintivo. Per il resto, Nixon compare sì e no venti minuti in totale sullo schermo, e, neanche durante il loro presunto scontro, accade nulla di accattivante: un paio di gag scipite e nulla più.
Si legge anzi nelle note di regia che Le riprese che richiedevano Kevin Spacey erano programmate per 5 giorni e fortunatamente lui era disponibile. Quindi è un Elvis & Nixon con un Elvis/Michael Shannon sottotono e un Nixon/Kevin Spacey che in cinque giorni ha girato la sua parte e ognuno per la sua strada.

Pur concentrandosi maggiormente su Elvis, il problema evidente è la mancanza di un punto di vista chiaro e definito: perché raccontare questa storia? In che modo dovrebbe intrattenere il pubblico?
Ecco cosa succede a voler fare a tutti costi non solo dei biopic su un evento così risicato, inutile, fugace, partendo solo da una foto di due personaggi insieme. Per carità, la magia del cinema è proprio quella di partire da una scintilla e raggiungere grandi fiammate ma in questo caso neanche la luce di un fiammifero si riesce a intravedere. Due cose riesce a trasmettere Elvis & Nixon: la voglia di riguardare  House of Cards (così come Jackie di Larrain faceva solo venire il desiderio di rivedere la Claire Underwood di Robin Wright), e un’idea che consentirebbe di arrivare ad un biopic che valga la pena vedere, ovvero quello su Nixon interpretato da Kevin Spacey, pienamente nella parte. Uno stand alone di questo tipo, magari, un suo perché ce l’avrebbe. Nixon da solo sì, anche un Elvis, sempre con Michael Shannon. Separati. Perché così no. Non c’è niente.

martedì 13 settembre 2016

VENEZIA 73: RECENSIONI DA COINQUILINI. I FILM ODIATI

di Matteo Marescalco

Per provare a pubblicare un pezzo di analisi differente dalle solite recensioni, ho chiamato a raccolta quattro dei miei sette coinquilini veneziani (per questa seconda puntata, la terza ha declinato l'invito, causa impegni universitari) chiedendo loro di scegliere due dei film più amati e due dei più odiati visionati all'ultima Mostra del Cinema e di parlarne brevemente. Oltre ad aver condiviso con loro bat-caverne negli anfratti della cucina, bagni dalla (in)dubbia pulizia, attacchi in massa di zanzare, cavallette, locuste e chi più ne ha più ne metta, spritz gentilmente offerti dal bar del Movie Village, proiezioni-sonnifero, appostamenti e Pabli Larrain ubriachi, mi trovo ora a riflettere, insieme a loro, sui film che hanno maggiormente suscitato le nostre emozioni, in positivo e in negativo. Di seguito, i film più odiati dagli hateful five che partecipano alla conversazione.
Per i film più amati, cliccate qui.

EMANUELE D'ANIELLO (CulturaMente e Bastardi per la gloria)

Piuma di Roan Johnson
Piuma parla di immaturità: quella di due ragazzini di fronte all'arrivo di una figlia inattesa, quella dei genitori di fronte ai problemi della vita, e in un certo senso, anche di quella cinematografica di una pellicola vuota, leggera fino all'esasperazione, fino a diventare inutile. Piuma è infatti una farsa che rifugge la complessità e, pur di strappare risate, evita di ricordarsi la realtà: ci si può rivedere, all'inizio, nei giovani Ferruccio e Caterina (evito di dire la versione "mocciana" dei nomi nel film) e nei personaggi dei genitori? Assolutamente sì; ma alla fine della pellicola? No, perché rimangono soltanto macchiette. Il film ha soprattutto un enorme difetto: voler raccontare la semplicità soltanto con la semplicità stessa, non capendo che la leggerezza, specialmente nel mondo odierno e nel cinema, è uno degli stati d'animo più complessi ed importanti da ricreare e comunicare.

Les beaux jours d'Aranjuez di Wim Wenders
Credo che tutti, almeno una volta nella vita, debbano vedere La mia cena con Andrè di Louis Malle, un compendio su come raccontare l'umanità al cinema. Questa premessa è doverosa per far capire che i film di solo dialogo, con due persone sedute ad un tavolo, sono possibili e interessanti. Evidentemente, però, Wim Wenders non lo ha mai visto, perché il suo nuovo film, oltre alla staticità, oltre alla noia, ci ha regalato minuti infiniti di dialoghi ridicoli e non interessanti raccontati da due personaggi che parlano come robot. Tutto ciò in 3D: una presa in giro o una provocazione se arrivasse da un altro regista, ma, arrivando da Wenders, non fatico a credere che l'idea avesse la massima serietà e, di conseguenza, la massima presunzione di tenere in ostaggio lo spettatore e far passare il tutto come arte.

MATTEO MARESCALCO (Cinemonitor, Cinema4Stelle, Il Giornale di LettereFilosofia e Diario di un cinefilo)

Nocturnal Animals di Tom Ford
La sensazione latente di estetizzazione senza alcun fine che si muoveva in incubazione in A single man esplode in quest'ultimo film dello stilista Tom Ford e finisce per avere conseguenze disastro sui suoi personaggi. Per Ford, la narrazione è sempre al servizio del suo stile e mai viceversa, l'odio nei confronti dei personaggi finisce per ingabbiarli in una costruzione circolare in cui tutto è palese fin dall'inizio. Il distacco, la brutalità e la freddezza dell'atteggiamento del regista verso i protagonisti che animano il suo spettacolo patinato si riflette anche sull'atteggiamento spettatoriale, lasciato ai margini della vicenda e privo di muoversi con libertà. Mai vista tanta cattiveria nei confronti di chi nutre una narrazione.

Questi giorni di Giuseppe Piccioni
Nonostante le maiuscole prove nelle personali riletture dell'Amleto e del Don Giovanni e il ruolo da protagonista assoluto in Una casa di bambola, Filippo Timi continua ad effettuare pessime scelte al cinema. In Questi giorni, inserito inspiegabilmente nel Concorso ufficiale dell'ultima Mostra del Cinema, interpreta un professore insicuro e balbuziente, una figurina di contorno che si aggiunge alle molte altre che si muovono nell'universo creato da Piccioni. Alla sostanziale debolezza dei personaggi, si aggiunge anche un copione sciatto e blando che si nutre di luoghi comuni e di cliché per nulla approfonditi. Banale, abbozzato ed imbarazzante. E, come se non bastasse, peggiora con l'avanzare dei minuti. Da dimenticare.  

EMANUELE PAGLIALONGA (Il Giornale di LettereFilosofia e Diario di un cinefilo)

Arrival di Denis Villeneuve
Il film propone un punto di vista interessante per quel che riguarda la fantascienza: arrivano gli alieni ad invadere il pianeta ma il problema è cercare di interpretare il loro linguaggio. Se ne farà carico Amy Adams, traduttrice e docente universitaria, inviata a dialogare con dei calamari giganti che si fanno capire con segni molto simili alle macchie di Rorschach. Originale ma sviluppato male: tutta la parte relativa all'interazione tra alieni e umani è lenta e finisce per appesantire il film. La fantascienza non è mai stata così noiosa.

Tommaso di Kim Rossi Stuart
Di film inguardabili alla Mostra ce ne sono stati diversi. Da Une vie a Les beaux jours d'Aranjuez, passando per Planetarium ma il Leone per il peggior film in assoluto lo porta a casa Kim Rossi Stuart, che qui indossa la triplice veste di attore, regista e sceneggiatore. Il suo Tommaso è una sintesi riuscita malissimo fra Woody Allen e Nanni Moretti: i problemi che affliggono il protagonista riguardano la sessualità e le relazioni con le donne. Peccato che il film non abbia capo né coda, che i nudi femminili siano gratuiti ed immotivati, che la recitazione sia insopportabile e sopra le righe. Ogni scena è stata pensa male e scritta peggio. Perché?!
ELISA TORSIELLO (Above the line, Cinema4Stelle e Radioeco)

Une vie di Stephané Brizé
Affermare che l'opera è tratta da un romanzo di Maupassant non è una giustificazione valida per la presentazione a Venezia. L'ultimo film di Brizé si rivela debole, tedioso e pedante, incapace di coinvolgere emotivamente il pubblico, facendolo immedesimare nel dolore e nelle pene provate dalla protagonista. Interessante il montaggio che frammenta la continuità narrativa con numerosi salti indietro nel tempo ma un aspetto tecnico non può salvare l'intero film. La lunghezza stessa risulta fastidiosa, dando l'impressione di una sceneggiatura che, nell'incapacità di trovare punti di svolta, allunga il brodo narrativo già di per sé al limite della sopportazione.

Tommaso di Kim Rossi Stuart
Ciò che veramente fa arrabbiare di questa seconda opera da regista di Kim Rossi Stuart, compromettendone il giudizio finale, è l'interessante struttura narrativa di base, volta ad analizzare problemi relazionali a noi tutti comuni, rovinata da una regia anonima e interpretazioni troppo urlate e poco emotivamente smussate. I personaggi che abitano il mondo di Tommaso rivelano un'apatia interpretativa tale da immettere tra loro e il pubblico un vuoto difficile da colmare. Si comprendono le difficoltà di Tommaso nello stabilire relazioni sentimentali durature e solide ma non riusciamo a farle nostre. Guardiamo a dovuta distanza un uomo schiacciato dal dolore ma non riusciamo a credergli. Cosa che, per un mondo come quello del cinema dove l'illusione si fa realtà, non è propriamente accettabile.

QUESTI GIORNI

di Matteo Marescalco

Nonostante le maiuscole prove nelle personali riletture dell'Amleto e del Don Giovanni e il ruolo da protagonista assoluto nel classicheggiante Una casa di bambola, Filippo Timi continua ad effettuare pessime scelte al cinema. In Questi giorni, inserito inspiegabilmente nel Concorso ufficiale dell'ultima Mostra del Cinema, interpreta un professore insicuro e balbuziente, una figurina di contorno insieme alle molte altre che si muovono nell'universo creato da Piccioni. Alla sostanziale debolezza dei personaggi, si aggiunge anche un copione sciatto e blando che si nutre di luoghi comuni e di cliché per nulla approfonditi.
Il film narra il viaggio verso Belgrado di quattro ragazze dotate di caratteri diversi. La vita di tutte e quattro è piena di problemi e questo cammino funge anche da seduta psicanalitica per i personaggi. Una di loro si affaccia verso l’età adulta grazie ad un lavoro in un hotel di lusso nella capitale serba. L’incontro in un campeggio con un gruppo di ragazzi potrebbe mischiare le carte in tavola e offrire alle ragazze la possibilità di rendere il viaggio indimenticabile e di allontanarsi, anche se momentaneamente, dai problemi della loro quotidianità.
Come già detto, il copione di Piccioni non brilla per inventiva, nonostante la prima mezz’ora di messa in scena tenti di discostarsi dalle soluzioni visive trite e ritrite viste in altre decine di film sovvenzionati dal Ministero dei Beni Culturali. Il problema consiste nel fatto che il regista persegue l’obiettivo di inseguire una cifra stilistica particolare, correndo il rischio di perdere affetto nei confronti dei personaggi, guardati con distacco e freddezza, senza il morbido abbraccio che, ad esempio, caratterizza, con tutte le sue debolezze, L’estate addosso di Gabriele Muccino, cui tutto si può rimproverare meno che trattare in modo glaciale i protagonisti del suo film. Il viaggio delle quattro ragazze è appesantito da dialoghi artificiosi, da attori che divorano sotto i loro tic i personaggi interpretati e da una ricerca stilistica che si dimentica completamente del corrispettivo contenutistico.
Peccato, le premesse erano buone ma il risultato finale risulta essere banale, abbozzato ed imbarazzante. E, come se non bastasse, il film peggiora vistosamente con l'avanzare dei minuti. Da dimenticare.

IL FESTIVAL DI VENEZIA PER UN CINEFILO ASSENTE

di Egidio Matinata

Un appassionato di cinema che non può andare al festival di Venezia è paragonabile a un’adolescente che non va al ballo di fine anno, ad un giocatore che viene squalificato in semifinale di Champions League quando la sua squadra ha già archiviato il passaggio del turno, ad un ciclista che a pochi metri dal traguardo alza in alto le braccia per esultare e stramazza al suolo goffamente. In poche parole, è uno sfigato. E cosa sono gli sfigati se non delle comparse che assistono al grande flusso degli eventi di cui altri sono protagonisti?
Ecco, quest’anno mi sono trovato dalla loro parte. Non potendo essere al Lido in questo afoso inizio Settembre, ho seguito comunque con grande interesse le vicende che hanno animato la 73esima edizione della Mostra; e non è stata affatto una brutta esperienza. Osservare le cose da un altro punto di vista, senza essere buttato nella mischia, può garantire una visione d’insieme che agli altri, magari, non … Ma chi voglio prendere in giro!? La verità è che è stato orribile. Dieci giorni di agonia e sofferenza. La cosa peggiore è stata il non poter rivivere la sensazione di essere in un altro mondo, un mondo che ha poco a che fare con la vita reale e che ha nel Cinema il suo minimo comune denominatore. Un’oasi in cui ti senti circondato da persone spinte dalla tua stessa passione, in cui puoi organizzare la giornata in base ai film da vedere, lasciando in secondo piano cose fondamentali come il cibo e il sonno, uscire dalla proiezione di un film inveendo contro gli antenati del regista che l’ha realizzato, oppure dirigerti con le gambe ancora tremanti verso l’uscita della sala dopo aver visto il capolavoro del festival, riuscendo solo a pensare «ma che diavolo ho visto!?».
L’unica cosa che mi è rimasta da fare è stata odiare, ma giusto un po’, gli amici accreditati (con i quali ho continuato, in maniera più che masochista, a condividere il gruppo WhatsApp Venezia73, mossa che ha sancito definitivamente il mio status di loser). Ora, unendo tutto ciò al fatto che l’edizione sembrava essere la più promettente degli ultimi anni, potete ben capire il mio stato d’animo. Indipendentemente dal valore effettivo dei film approdati in laguna, le scelte dei selezionatori hanno tentato di rendere la mostra quanto più omogenea possibile, senza seguire una linea ben precisa; il risultato è stato l’incontro-scontro tra le più varie tipologie di cinema: dai ‘vecchi’ (Wenders, Kusturica, Malick, Naderi, Gibson) alle ‘vie di mezzo’ (Villeneuve, Ozon, Sorrentino, Dominik, Fuqua, Ford), fino ai ‘giovani’ (Amirpour, Larraìn, Chazelle, Cianfrance).
Il cinema italiano sembra l’unico a uscirne davvero con le ossa rotte da questo festival, ma non è il caso di iniziare con allarmismi, proteste, luoghi comuni e quant’altro; in questo caso credo che sia una pura questione di tempistiche (molti autori hanno già presentato i loro film da un pezzo, altri sono al lavoro sui prossimi). Considerando che la scorsa annata ha regalato ottimi film che sembrano aver smosso le acque della nostra cinematografia, l’Italia può al massimo essere rimandata, ma non bocciata. La giuria, capeggiata dal buon Sam Mendes, ha incoronato nella giornata di chiusura The woman who left di Lav Diaz, il temutissimo film filippino di quattro ore, scelta che ha scatenato pareri molto contrastanti.
E qui c’è un altro fattore che fa arrabbiare gli sfigati che non partecipano al festival: non poter essere parte attiva del dibattito, prima di tutto non potendo vedere il film, sentire davvero l’aria che si respira, confrontarsi con chi il film l’ha davvero amato o odiato, frainteso o snobbato; in secondo luogo perché l’unica soluzione sarebbe discuterne sui social network, che però, spesso, diventano una copia sbiadita di un vero dibattito, una lente deformante che fa sembrare ogni discussione un vociare confuso e sguaiato. Non sempre, ma molto frequentemente. Ed è proprio il dialogo, il dibattito, ad essere uno dei punti positivi di questa edizione. Da un lato ci sono coloro che si sono schierati dalla parte di Diaz (cinema impegnato e impegnativo, cinema da festival, di nicchia), dall’altro chi avrebbe preferito un vincitore diverso, un’opera in grado di fare da ponte e allargare, metaforicamente, la dimensione della manifestazione, porgendo la mano ad un pubblico più ampio. Partendo dal presupposto che sono due punti di vista ugualmente validi, forse è proprio la discussione in sé ad essere un buon segno, anzi, una vittoria. In un’epoca in cui si parla tanto della morte del cinema e dell’avanzare di nuovi linguaggi audiovisivi, dibattiti come questo ci ricordano che il cinema è vivo e vegeto, ha tanti volti e tante forme. Credo che questo sia il lascito più importante di questa edizione: l’attestazione di un cinema che sa ancora dividere e far parlare di sé, e che fin quando lo farà non potrà mai morire. Quindi viva Arrival, Lav Diaz e Ford, viva Malick, La La Land e The Bad Batch, viva Ozon, The Young Pope e Kusturica, viva Naderi, Wenders e Larraìn.

lunedì 12 settembre 2016

L'ESTATE ADDOSSO

di Matteo Marescalco

Nell'ambito del cinema italiano, Gabriele Muccino è una figura parecchio enigmatica. Bistrattato dalla critica ma trionfatore al box office, soprattutto dopo la collaborazione con Will Smith che gli ha fruttato ampio successo anche all'estero. Il regista romano è una mina vagante, quell'elefante nel salotto che gli americani sanno essere presente ma che tendono a dimenticare, nonostante l'enorme stazza renda tutto ciò quasi impossibile.

Dopo aver diretto all'estero Quello che so sull'amore e Padri e figlie, Muccino è tornato in Italia, ripartendo da zero con L'estate addosso, road movie sul coming of age dei suoi personaggi. Una sorta di rinascita per un regista che l'industria culturale italiana, in fin dei conti, non è mai riuscita a sfruttare a pieno. In questo suo ritorno al cinema "economico", Muccino ha sfruttato un altro personaggio fondamentale dello spettacolo italiano: Jovanotti, autore del brano musicale che ha dato il titolo al film e che, come il regista, è stato in grado di ottenere un buon successo negli Stati Uniti.
Protagonista del lungometraggio è Marco che, insieme a Maria (ma solo per caso), si ritrova a vivere la vacanza dei diciotto anni negli States, un po' il sogno di ogni adolescente che si affaccia improvvisamente nel mondo degli adulti e che deve fronteggiare necessariamente una serie di scelte che condizioneranno per sempre gli anni a venire. A San Francisco, i due ragazzi saranno ospitati da Matt e Paul, coppia omosessuale che inciderà profondamente le certezze di Maria e che sarà, a sua volta, scossa dalla convivenza mensile con i due adolescenti romani.

Quest'ultimo lavoro di Muccino funziona. Perchè è bulimico come non mai, sfrenato, eterogeneo,
multiculturale, un melting-pot che, attraverso la macchina da presa, tallona i suoi personaggi, li abbraccia, li accarezza e coccola le loro debolezze. Si discetta di paure e di sogni, di speranze e di vecchi incubi, di fallimenti e di emozioni. Spesso, con il solito tono urlato che alla lunga irrita ma che trasmette la vitalità dei propri attanti. Impossibile non provare nostalgia e persino una punta di malinconia per anni ed emozioni che più o meno tutti abbiamo vissuto. L'ultima estate di libertà e di spensieratezza. Peccato che il peso di Muccino si senta. E, con esso, il suo essere borghese. Peccato che la follia urlata di questi quattro ragazzi duri soltanto un mese e non raggiunga lo status di rivoluzione permanente. Peccato che le urla siano solo superficiali, perchè il silenzio, in fin dei conti, è molto più forte e decisivo di grida liberatorie. Nonostante possa intercettare un notevole bacino di pubblico (young adult), questo cinema è un cinema fuori dal tempo, senza alcun legame con la realtà storica che stiamo vivendo, destinato a perire nel breve periodo di un'estate disimpegnata e sospesa.

VENEZIA 73: RECENSIONI DA COINQUILINI. I FILM AMATI

di Matteo Marescalco

Per provare a pubblicare un pezzo di analisi differente dalle solite recensioni, ho chiamato a raccolta quattro dei miei sette coinquilini veneziani chiedendo loro di scegliere due dei film più amati e due dei più odiati visionati all'ultima Mostra del Cinema e di parlarne brevemente. Oltre ad aver condiviso con loro bat-caverne negli anfratti della cucina, bagni dalla (in)dubbia pulizia, attacchi in massa di zanzare, cavallette, locuste e chi più ne ha più ne metta, spritz gentilmente offerti dal bar del Movie Village, proiezioni-sonnifero, appostamenti e Pabli Larrain ubriachi, mi trovo a riflettere sui film che hanno maggiormente suscitato le nostre emozioni, in positivo e in negativo. Di seguito, i film più amati dagli hateful five che partecipano alla conversazione.
Per i film più odiati, cliccate qui.

EMANUELE D'ANIELLO (Culturamente e Bastardi per la gloria)

Jackie di Pablo Larrain
Più che un biopic convenzionale, con la sua struttura frammentaria, Jackie è l'analisi dell'elaborazione del lutto. Nel racconto dei tre giorni che passano dall'omicidio del presidente John Kennedy nel 1963 al suo funerale, il volto di Natalie Portman, scavato e triste, ma al tempo stesso magnetico e dignitoso, sempre inquadrato attraverso lancinanti primi piani, è la bussola che ci guida tra il dolore privato di una donna e quello pubblico di una nazione ferita. Il regista Pablo Larrain, che ha una sensibilità sua diversissima da quella dei colleghi americani, concepisce un film tutto interiore interamente su un volto esteriore, accogliendoci in un dolore che non si può superare. Semmai imparare a conviverci.

El ciudadano ilustre di Gaston Duprat e Mariano Cohn
Se non ci fosse stato il sogno incarnato da Maradona e il terrore rappresentato dalla dittatura, la storia ed il sentimento popolare dell'Argentina si potrebbe racchiudere nel percorso che va dall'umiliazione per il mancato Premio Nobel a Jorge Luis Borges fino alla gioia per l'elezione a Papa di Jorge Bergoglio. E, non a caso, questi personaggi sono citati tutti in El ciudadano ilustre, uno spaccato ironico ed arguto di commedia umana sulle figure che la popolano. Ironico e corrosivo, esilarante ma anche molto malinconico, il film racconta il conflitto universale che noi tutti attraversiamo: cosa vale la pena realizzare nella vita e come affrontare le conseguenze delle proprie scelte? Far ridere svelando con intelligenze l'ipocrisia e l'insoddisfazione umana è forse il più grande risultato che un film possa raggiungere.

MATTEO MARESCALCO (Cinemonitor, Cinema4StelleIl Giornale di LettereFilosofia e Diario di un cinefilo)

The bad batch di Ana Lily Amirpour
L'idea che The bad batch possa essere un sequel non ufficiale di The Truman Show di Peter Weir è assai allettante. La presenza di Jim Carrey a fare da traghettatore conferma questa mia ipotesi. Nel film del 1998, Truman Burbank riusciva ad evadere dalla realtà fittizia costruitagli intorno da Christof. Nel lungometraggio lisergico della Amirpour, Carrey interpreta un barbone che vaga per un deserto al di fuori della civiltà, il "lotto difettoso, tra una comunità di cannibali e Comfort, villaggio guidato dal Grande Sogno, santone new age che dispensa perle di saggezza e violenta le proprie donne. La realtà non è mai stata così dura e meno soddisfacente della sua creazione spettacolare. Sfilacciato e sbilanciato ma potente, come i corpi muscolosi degli attori che vi fanno parte. Decisamente, il colpo di fulmine dell'ultima Mostra del Cinema.

La La Land di Damien Chazelle
Dopo Gravity, Birdman ed Everest, la Mostra del Cinema di Venezia riesce a trovare un'altra apertura con il botto grazie allo shakeratissimo La La Land del giovane Chazelle. Il film è una gioia per gli occhi e le orecchie, porta via con sé un pezzo di cuore, affascina e cattura. Inizia con un ritmo frastornante tra coreografie autostradali e, man mano, riesce a placare il suo baricentro su un amore impossibile che vive della propria affermazione artistica, che cresce e diminuisce, si rinforza e si indebolisce. Fino all'onirico finale, sliding doors che demoliscono, con la leggerezza di un'utopia, tutto ciò che è accaduto, lasciando spazio ad un ultimo sprazzo di sogno nella city of stars. Il dispositivo cinematografico non è mai stato così attraente e amaro.


The Young Pope di Paolo Sorrentino
Tutti a pensare che la serie di Sorrentino sarebbe stata tutt’al più un remake con più soldi de Il giovane Ratzinger, e invece dai primi due episodi che sono stati presentati in anteprima ne è emerso un lavoro ottimale, divertente e d’intrigo. Una House of Cards vaticana diretta da un italiano con tre punte di diamante: Jude Law, Diane Keaton e Silvio Orlando (nessuno mai si sarebbe aspettato di vederli nella stessa inquadratura). Il Sorrentino onirico si condensa nei primi cinque minuti del primo episodio, per poi lasciare spazio al suo sguardo cinico e disincantato, lavorando su una storia ben scritta e dalle grandi potenzialità che porta alla luce, anzi, all’ombra, un papa italo americano che fuma, non vuol essere fotografato e che al suo primo discorso affacciandosi in Piazza San Pietro lascia intravedere solo la sua oscura silhouette, inveendo pesantemente contro i fedeli che non riescono a vederlo. Un personaggio destinato a far parlare di sé. Plauso a Sorrentino.

Brimstone di Martin Koolhoven
La critica è stata concorde nello stroncare il western al femminile con Dakota Fanning e Guy Pearce, nonostante sia notevole e sicuramente più meritevole di altri orrori piazzati in Concorso. Il film ricalca molto il modello tarantiniano: è un western, è diviso in capitoli, è violento e pulp e, nella sezione finale, la carrozza che avanza nella neve è un richiamo evidente a The Hateful Eight. Brimstone è diviso in quattro capitoli, anche se l’ordine cronologico non viene rispettato: le sezioni centrali sono quindi dei grossi flashback che portano avanti la trama con molta attenzione. Pecche condivisibili con chi il film l’ha stroncato: la durata (avrebbe giovato se lo script fosse stato asciugato di una ventina di pagine, soprattutto nella parte finale) e l’immortalità e inossidabilità del villain che finisce per avere una punizione finale ingiusta e poco violenta: con tutto quello che i personaggi del film hanno patito, il pan per focaccia sarebbe stato cosa buona e giusta. Ciononostante, è un sì.

MARA SIVIERO (Sensi di cinema e Diario di un cinefilo)

Arrival di Denis Villeneuve
Uno dei film che sicuramente mi ha maggiormente soddisfatto è stato Arrival. Considerarlo come il solito film sugli alieni sarebbe un terribile errore. Villeneuve analizza il rapporto che si può creare tra due identità diverse attraverso un livello di comunicazione adeguato ad entrambe le parti. Alieni buoni o cattivi? La solita domanda, si direbbe. La bravura del regista consiste nel tenere catalizzata l'attenzione sulle fasi precedenti alla risposta. La protagonista che vive l'intrecciarsi di diverse dimensioni temporali è un mezzo al servizio dello spettatore che viene guidato alla comprensione e alla conoscenza tramite un processo lento e graduale. Villeneuve mostra quanto comunicare con il diverso sia sempre possibile e quanto ciò possa assurgere a simbolo sulla comunicazione tra noi stessi e i nostri simili.

La La Land di Damien Chazelle
Annunciato come musical-omaggio ai tempi d'oro che furono del suddetto genere, ci si domandava se, in effetti, Damien Chazelle sarebbe stato in grado o meno di mettere in piedi uno spettacolo dalla storia intrigante e nel frattempo di omaggiare il passato senza perdere pezzi per strada. La La Land racconta la nostalgia verso qualcosa o qualcuno che si sta perdendo insieme alla tensione per qualcosa che, invece, si sta edificando. Il cammino di una ragazza che tenta di diventare attrice e quello di un ragazzo che cerca di salvaguardare un genere come il jazz si incrociano in una strada fatta di canzoni e di danze, segni di un passato trattato con le pinze dell'innovazione e della modernità. Il passato è solo un'entità di tempo da cui bisognerebbe trarre al nostro servizio gli insegnamenti necessari ed adattarli al presente ed al futuro.

ELISA TORSIELLO (Above the line, Cinema4Stelle e Radioeco)

One more time with feeling di Andrew Dominik
La macchina da presa danza malinconica sulle note di Nick Cave, in uno dei momenti peggiori, ma artisticamente più elevati, nella vita dell'artista. La rielaborazione del lutto attraverso la composizione musicale ha dato vita ad un'opera sublime e commovente, che avvolge lo spettatore e lo fa danzare insieme alla cinepresa.

La La Land di Damien Chazelle
Chazelle prende il genere musical e lo fa suo, aggiungendo, ai colori sognanti di Un americano a Parigi e alla rincorsa ai propri sogni di E' nata una stella, una capacità registica matura e solida e una storia mai mielosa ma realistica. Il risultato che ne deriva è un film che va ben oltre il genere musical, che ne travalica i confini per elevarsi a mero specchio della realtà o, se vogliamo, a frammento di vita vissuta.

domenica 11 settembre 2016

THE BAD BATCH

di Matteo Marescalco


Risulta decisamente strano trovare Jim Carrey, Keanu Reeves e Giovanni Ribisi, tre attori tanto cari al cinema degli anni '80 e '90, in un film come The Bad Batch. O probabilmente no. Perchè il secondo lungometraggio di Ana Lily Amirpour, scoperta dal Festival del Film di Roma di Marco Muller, che inserì in selezione il suo primo A girl walks home alone at night, si nutre dell'estetica pop di quegli anni, impastandola con fascinazioni perverse ed erotismo muscolare, riuscendo a raggiungere una strana amalgama, sbilanciata e poco coerente ma dotata di un'indubbia forza vitale.

Nelle prime inquadrature l'occhio umano si perde nelle desolate lande di un deserto che sembra estendersi all'infinito. Un corpo da modella si aggira in questo ambiente devastato dalla luce solare, sopravvissuto ad un'esplosione nucleare, ad una guerra post-atomica o, semplicemente, alla politica americana di Donald Trump. Ma non ci è dato sapere tutto ciò. Il potere decisionale appartiene allo spettatore.
La ragazza girovaga finchè si imbatte in una zona di scarto popolata da residui umani, ammassi di muscoli che sono paragonabili al corpo filmico di The Bad Batch: pompato allo sfinimento, artificioso e latore di un'anormalità che ne mina le fondamenta. Si tratta di una comunità di cannibali che deturpa il bel corpo della ragazza, cibandosi delle parti di cui viene privata. Fuggita da questo lotto difettoso, Arlen approda a Comfort, altro mondo rovesciato, dominato da atmosfere lisergiche anni '70, tra mescalina, musica pop e un Keanu Reeves santone che tiene orazioni da grande sogno ma violenta le sue ancelle. Le sequenze si dilatano a dismisura, il ritmo si fa lento ed il silenzio totale. Ana Lily Amirpour non insegue il baricentro del film, tende volutamente a sfilacciare la narrazione e a percorrere le differenti ed eterogenee traiettorie del racconto e dello sguardo che si aprono nel deserto, ottenendo un presente che è l'unico cannibale della vicenda.

Nel bel mezzo di soluzioni estetiche ingenue, di una messa in scena che mostra ma non disdegna
anche di suggerire, di echi da slasher movie, della violenza e dei toni profetici da distopia, trova posto la bonarietà della Amirpour nei confronti dei suoi personaggi, giganti deboli che hanno bisogno di una lieve scintilla di amore, santoni new age in crisi di identità, borderline che hanno perso ogni nozione di confine. In un'America priva ormai di punti di riferimento, in cui il grande sogno è definitivamente tramontato e soggetto a travisamenti vari, non resta altro che un moto deformante e il fascino perverso dei suoi personaggi, bestie prive di prospettiva che si aggirano nelle lande desolate. Speranzosi, però, nell'azione di un uomo a cavallo pronto ad «accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo».