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giovedì 28 aprile 2016

10 CLOVERFIELD LANE

di Egidio Matinata

Un film di Dan Trachtenberg. Con Mary Elizabeth Winstead, John Goodman, John Gallagher Jr.. Scritto da Josh Campbell, Matthew Stuecken, Damien Chazelle. USA 2016. 105 minuti.

L'aspetto più affascinante delle arti narrative è la capacità di poter creare mondi. Si prende spunto da ciò che ci circonda, da ciò che si vede e da ciò che si sente per poterlo trasformare in qualcos'altro, qualcosa di simile ma declinato in base al genere di universo che si vuole costruire. L'universo narrativo all'interno del quale si muove 10 Cloverfield Lane è lo stesso creato da Matt Reeves con Cloverfield, un insieme di found footage e monster movie in cui New York, una notte, veniva attaccata da un mostruoso essere proveniente dallo spazio.

Il film di Dan Trachtenberg invece inizia con Michelle, in viaggio (ma sarebbe meglio dire in fuga) verso un luogo imprecisato. Vittima di un incidente, si risveglia in un rifugio antiatomico costruito da un uomo che l'ha salvata e rinchiusa lì dentro insieme ad un altro ragazzo. L'uomo sostiene che al di fuori del bunker non ci sia più vita, perché un attacco (forse umano, forse alieno) ha portato l'umanità verso l'olocausto atomico.
Il carattere vincente sta proprio in questa intrigante, seppur molto semplice, idea di fondo. Cosa è vero e cosa non lo è? Un dilemma basilare che apre un ventaglio di risposte decisamente ampio. Un po' come il film, che parte da un concept chiaro ed evidente che però viene declinato attraverso tre generi nell'arco della narrazione: il thriller (principalmente), l'horror e la fantascienza. Sia la sceneggiatura, quadrata e senza sbavature, che la regia invisibile riescono a creare una tensione che si protrae per tutta la durata del film, nonostante non venga esplorata fino in fondo la situazione che vede persone costrette a condividere lo stesso spazio limitato contro la loro volontà, un tema molto sfruttato da cinema e letteratura (Stephen King lo ha fatto spesso).

Qui l'accento è posto sì sui personaggi, ma non tanto sulle dinamiche che la convivenza forzata innesca, quanto sul mistero che avvolge il loro bunker, ma che forse è anche al suo interno. Un mistero che muta, cambia forma, va via e poi ritorna più potente di prima. Anche gli attori sono perfettamente funzionali: dall'inquietante e vagamente infantile John Goodman (di cui, ancora, ricordiamo la magistrale interpretazione in un altro piccolo grande film: Red State di Kevin Smth) ad un semplice e quasi sempre sottomesso John Gallagher Jr., fino ad arrivare a Mary Elizabeth Winstead, il cuore pulsante del film, il personaggio con cui ci identifichiamo e che ha un arco di trasformazione perfettamente riuscito: parte insicura e tremante per arrivare, alla fine, con la situazione in pugno, pienamente consapevole di se stessa e del mondo che la circonda.

Non è certamente un film per i fanatici della verosimiglianza o per coloro che invocano la credibilità a tutti i costi questo anomalo sequel/spin-off. Ma l'importante, come è giusto che sia, è che la coerenza ci sia nei confronti del genere e non rispetto alla realtà. D'altronde è di altri mondi che stiamo parlando, giusto?

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR

di Matteo Marescalco

Finora, il 2016 ci ha regalato due epici scontri: quello tra Batman e Superman in Batman v Superman: Dawn of Justice di Zack Snyder e quello tra Captain America ed Iron Man in questo Civil War dei fratelli Russo, già autori del precedente episodio, The winter soldier.
Il mondo sembra avere terribilmente bisogno dei supereroi, di uomini normali dotati di super poteri o di figure cristologiche verso cui proiettare i propri desideri. Questa necessità ben radicata nell’immaginario collettivo è stata colta al volo dai Marvel Studios e dalla Warner Bros. Pictures che, negli ultimi anni, hanno (più o meno) lentamente costruito il loro universo cinematografico. Quello Marvel trova pieno compimento in The Avengers, diretto nel 2012 da Joss Whedon, quello DC in Dawn of Justice. Con una differenza tra i due casi. I Marvel Studios lavorano sulla costruzione del loro universo dal lontano 2008, anno di uscita di Iron Man, primo film del Marvel Cinematic Universe. Viceversa, la DC ha realmente colto la possibilità dei grossi incassi negli ultimi anni e ha invertito la tendenza della Marvel: anziché realizzare prima i film sui singoli supereroi per poi farli scontrare in un film collettivo, la decisione è stata quella di lanciare dapprima il film con Batman e Superman insieme per poi dedicarsi, in seguito, alla delineazione dei singoli personaggi. La notizia recente è quella che il prossimo film su Batman verrà diretto ed interpretato proprio da Ben Affleck.
Tutto ciò finisce per avere forti conseguenze sulla stessa struttura drammaturgica dei due percorsi. La Marvel ha sempre prediletto il divertimento, lo scambio di battute e la rapidità delle situazioni. Gli eroi DC, invece, sin dal Batman di Christopher Nolan, sono ben calati in un contesto che richiama il gangster movie, alle prese con sensi di colpa e responsabilità del proprio “mestiere”. Mentre il percorso intrapreso dal Marvel Cinematic Universe è molto più chiaro e delineato, consentendo ai fan di cogliere le citazioni ricorsive tra i vari episodi, i pilastri dell’universo DC appaiono ben più fragili, minati dalla frettolosa realizzazione del progetto. I punti oscuri in Dawn of Justice abbondano, nonostante una messa in scena indubbiamente affascinante ed espressiva. La forza del film di Zack Snyder risiede nelle sue sequenze oniriche e nel contrasto profondo tra figura cristologica ed eroe umano tormentato dai propri sensi di colpa. La riflessione sulla legittimità del potere dei due personaggi e sulla deriva delle responsabilità è, ovviamente, dietro l’angolo. In questo, Civil War finisce per assomigliare molto al film di Snyder. Gli Avengers sono in crisi e se le danno di santa ragione, tormentati dal “peso” che deriva dai loro poteri. Tuttavia, la carne al fuoco è fin troppa e l’atmosfera finisce per distanziarsi in maniera eccessiva dai precedenti episodi dedicati a Captain America, orientati com’erano verso il genere poliziesco-intrigo politico. Insomma, i fratelli Russo hanno aggiunto un altro tassello al puzzle Marvel, deficitario rispetto allo standard di The winter soldier e di Age of Ultron che si poneva anche come interessante riflessione sui meccanismi del cinema digitale.
Ogni singolo personaggio è fin troppo legato al proprio carattere standard e serve l’introduzione di Spider Man a svecchiare l’ambiente. Sarà lui il traghettatore verso il rinnovo del brand?

mercoledì 27 aprile 2016

WILDE SALOMÉ

di Matteo Marescalco

Dopo essere stato presentato alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia, in occasione del conferimento del premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker ad Al Pacino, Wilde Salomé arriverà anche nelle sale italiane il 12 Maggio, distribuito da Distribuzione Indipendente.
Il 2011 ha regalato al mondo del cinema una nuova diva: Jessica Chastain. Capelli fiammanti e sguardo magnetico, la giovane è stata lanciata nel mondo dello spettacolo proprio da Al Pacino che, fin dal debutto veneziano, ha tenuto a ribadire la sua “paternità” della Chastain. In Wilde Salomé, tentativo estremo di fondere la qualità fotografica del cinema e il suo movimento al passato e l’essenza dell’acting del teatro, Jessica Chastain interpreta la Salomé portata alla luce da Oscar Wilde tra il 1891 ed il 1893. Questa storia di lussuria, avidità e vendetta racconta la leggenda del Re Erode e del suo desiderio nei confronti della figliastra, Salomé, a sua volta innamorata di Giovanni Battista.
Dopo Riccardo III-Un uomo, un re, Al Pacino torna a prenderci per mano e a condurci verso un territorio oscuro, quello della sperimentazione tra cinema e teatro. Salomé è, indubbiamente, una storia di eccessi, ma soprattutto di limiti, di confini e di estraneità. E proprio al limite tra documentario, teatro, cinema ed improvvisazione si colloca il suo autore, riprendendo i preparativi, le prove e la messa in scena di questa controversa opera teatrale e, nel frattempo, provando a costruire un quadro completo dello scrittore irlandese, sia come persone che come artista. Per farlo, non esita a viaggiare, recandosi nel deserto del Mojave, in Irlanda e nel Regno Unito. In tal senso, Wilde Salomé di Al Pacino si è rivelata come un’interessante opportunità per il suo autore; infatti, in ballo non c’è unicamente il dramma di Wilde ma soprattutto il percorso del suo drammaturgo, autore del testo teatrale a Parigi, lontano dalla sua Inghilterra.
In Wilde Salomé è il cinema che rilegge la realtà ed il teatro, la macchina da presa tende a spettacolarizzare quanto ripreso e a costruire un crescendo ricco di tensione, sfruttando le capacità ricorsive del montaggio. Dall’inizio alla fine, prove, documentario, film e rappresentazione teatrale crescono insieme, senza perdere un minimo di fulgore creativo. Jessica Chastain è una perfetta Salomé, virginale prima, diabolica e peccatrice poi. Riesce perfettamente ad incarnare la metamorfosi della ragazza in creatura baccantica, donando alla macchina da presa una danza sensuale che esalta le capacità di trasformazione del suo corpo scenico. Al Pacino, con evidente intento metatestuale ed autoriflessivo, scherza sui suoi personaggi interpretati in passato e anche sulla sua età. Inevitabile pensare alla strizzatina d’occhio a Il ritratto di Dorian Gray che, tuttavia, nel corso del documentario, non viene mai menzionato. Casualità? In fin dei conti, tutto il film dell’attore americano riflette sulla vita, sul tempo e sulla morte. Nonché sul ruolo che lo spettacolo della vita, filtrato dal cinema, porta ad interpretare. Più che una trasposizione della Salomé, il film di Pacino sembra essere un saggio critico che porta a galla l’eccedenza di senso del dramma teatrale, attraverso un connubio di vita-arte-spettacolo che lascia interdetti per forza espressiva.

martedì 19 aprile 2016

DAVID DI DONATELLO O (SULL'ESSERE CATTIVO)

di Matteo Marescalco


Sono state necessarie 59 edizioni prima di compiere la rivoluzione in casa David di Donatello. Per la prima volta nella sua storia, la produzione e l’organizzazione dell’evento è stata affidata a Sky che ha giustamente optato per un deciso restyling, modellato sui ben più famosi Academy Awards. A risvegliare la 60esima edizione dalla solita sonnolenza è stato il conduttore di turno, Alessandro Cattelan, a suo agio, quando appoggiato dai premiati, con le gag e con i ritmi sostenuti del neo-evento. Finalmente, il cinema italiano non è sembrato solamente uno specchietto per allodole, un pub ultra chic con vecchi camerieri ancorati alle loro poltrone a servire giovani clienti fighetti, un ritrovo per pseudo-mostri che immaginiamo proferire, a fine serata, la famigerata espressione: «E pure 'sto David se o semo levati da'e palle!». Alla sua 60esima edizione, la cerimonia dei David di Donatello è apparsa come uno show forte della propria industria culturale da far sfilare sul red carpet. Con tanto di contributi video realizzati dai The Jackal, il futuro del panorama mediale italiano, che sono riusciti persino a risvegliare il versante autoironico di Paolo Sorrentino. Insomma, tutto è andato bene sul versante organizzativo con la certezza che un maggiore rodaggio, negli anni a venire, riuscirà a limare alcuni difetti. Peccato per il tentativo di boicottaggio del tirato Toni Servillo, divo sempre nascosto dietro la sua maschera di grand acteur, e per il solito show caciarone di Michele Placido, potenziale evaso da un penitenziario di massima sicurezza per psicopatici.

Attendevamo molto quest’edizione dei David. Il 2015 ed il 2016 sono stati, da molti, etichettati come gli anni del risveglio produttivo del cinema italiano: film quali Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Non essere cattivo, Suburra, Il racconto dei racconti e Perfetti sconosciuti lo dimostrano. Qualcosa bolle in pentola, il genere è vivo e funziona, sia in campo nazionale sia internazionale. I produttori scommettono e investono e il pubblico premia il prodotto medio. Senza dimenticare l’assoluto exploit di Checco Zalone, protagonista dello storico risultato di circa 70 milioni di euro incassati al box office. Insomma, la new wave dei film in gara e l’organizzazione affidata a Sky sembrano riflettersi.
Se non fosse per un vecchietto che troneggia in prima fila, emblema del lassez-faire italiano, rappresentante di una generazione che sembra cambiare le cose ma che resterà sempre immobile ed immutata nel corso del tempo. Il 94enne Gian Luigi Rondi, dittatore dell’Accademia del Cinema Italiano-Ente David di Donatello, con cui è “colluso” dal 1963, impassibile come una mummia sembra infastidito dallo scippo di Sky a mamma Rai e dal nuovo corso degli eventi. Fissa con sdegno le clip trasmesse ed il carattere rapido e giovanile della premiazione che, nonostante le belle speranze iniziali, tracolla bruttamente. A trionfare, infatti, sono Lo chiamavano Jeeg Robot e Il racconto dei racconti che portano a casa 7 statuette. Perfetti sconosciuti vince il David alla Miglior Sceneggiatura e quello al Miglior Film. Apparentemente, sembrano tutti contenti. Tutto procede per il meglio, l’insulso film di Paolo Sorrentino torna a casa (quasi) a mani vuote e a trionfare è la vitalità del nuovo cinema, improntato sul genere e sul modello della rom-com americana. Cosa c’è che non va, allora? Perché la premiazione tracolla?
L’assoluta dimenticanza di Non essere cattivo, l’ultimo film di Claudio Caligari, autore di soli tre film in ben 32 anni, accompagnato a lottare da Valerio Mastandrea e dalla KimeraFilm che si sono schierati coraggiosamente a suo fianco e hanno investito su un prodotto a rischio fallimento quando nessun altro lo ha fatto. Il film è stato presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia ed è stato un vero colpo al cuore. La storia di due ragazzi della periferia romana, alle prese con i tristi e squallidi scenari della Roma degli anni ’90, fossili della generazione pasoliniana, sconfitti senza aver mai avuto una minima possibilità, condannati ad un tramonto eterno, ha scosso gli animi del pubblico veneziano. Caligari e il suo gruppo si sono sporcati le mani nella nuda vita, realizzando un film fatto di carne e di sangue, con al centro un gigantesco cuore pulsante.  Quello del suo regista, vittima della sofferenza con cui ha partorito la sua ultima creatura. Nonostante avesse 16 nomination dalla sua, Non essere cattivo ha trionfato solo nella categoria del Sonoro, vincendo un’unica misera statuetta. Claudio Caligari non è stato minimamente nominato. Un vero sfregio da parte dell'impresa di Rondi, troppo alto e chic per abbassarsi verso gli ultimi. L’impresa produttiva di Valerio Mastandrea e Simone Isola è passata in secondo piano. E un vero uomo di cinema è stato completamente soffocato dai vestiti di scena di una serie di giovani fighetti che hanno sempre visto il cinema come un passatempo. Mai come una lotta armata contro la fine, una questione di vita e di morte. Il cinema italiano è davvero cambiato, premiando Jeeg Robot e Perfetti sconosciuti? O si tratta, ancora una volta, di un gigantesco abbaglio? Di una presa in giro, insomma di un’illusione, di un misero velo?
Claudio Caligari, probabilmente, avrebbe odiato l’accoglienza veneziana a Non essere cattivo. Avrebbe odiato il fatto che il film sia stato scelto come rappresentante italiano nella corsa agli Oscar. Avrebbe odiato questi improvvisi quanto tardivi riconoscimenti. Non lo so con certezza. Non ho mai conosciuto Caligari personalmente. Ma non sono l’unico. Sono certo che non lo conoscano nemmeno tutti i rappresentanti della cultura istituzionale che lo hanno largamente elogiato durante gli ultimi mesi, costruendo attorno a lui un baraccone mediatico. Sono gli stessi che, ancora una volta, gli hanno voltato le spalle. Perché gli ultimi non saranno mai i primi. Sono condannati a vivere una vita subalterna, ai margini, in periferia. Meglio così. La verità nuda e cruda fa molto meno male di un falso contentino. E Caligari si è dimostrato, fino alla fine e persino oltre, un vero perdente. Cinico ma necessario destino il suo.
Alla fine della cerimonia, dopo i titoli di coda, tutti si alzano e vanno via ma, nell’oscurità della sala, ormai non più baraccone scintillante ma contenitore di rovine, si aggirano due ragazzi dagli occhi colmi di lacrime: «Daje Vittò, ce l’avemo fatta!».

venerdì 15 aprile 2016

TRUMAN

di Matteo Marescalco
Partiamo da un inevitabile presupposto: odio i cani e, a maggior ragione, odio i film con cani come protagonisti (ciò non toglie che, invece, ami i Cani). Per questo, sono arrivato in sala con le peggiori aspettative, nonostante la presenza, tra gli interpreti di Truman, di Ricardo Darin e Javier Camara e nonostante un palmares che può vantare premi al San Sebastian Film Festival e, soprattutto, cinque Goya, tra cui quello al Miglior Film, alla Regia, alla Sceneggiatura e agli Attori. Il film di Cesc Gay mi ha piacevolmente colpito e soddisfatto per una serie di motivazioni che approfondirò. E anche per il fatto che il cane, in fin dei conti, appare solo per pochi minuti, nonostante rivesta una sua importanza drammaturgica.
Javier Camara, dopo aver interpretato uno steward disinibito ne Gli amanti passeggeri, torna, ripetutamente in Truman a bordo di un aereo. Questa volta da semplice passeggero. Nel film di Almodovar traghettava la Spagna verso il fallimento totale, in una debacle che aveva in morte e sesso i suoi santoni. Qua, si sposta dal Canada verso Madrid per trascorrere quattro giorni in compagnia del suo migliore amico, un attore sull’orlo del fallimento e ad un passo dalla morte per colpa di un tumore che da circa un anno lo debilita. Il suo fedele compagno di vita è Truman, un bullmastiff con cui condivide ogni momento della giornata. I due sono completamente diversi: Tomas (Javier Camara) è un docente pragmatico e riflessivo, Julian (Ricardo Darin) è un estroso seduttore. Tra gli incontri con le potenziali famiglie adottive di Truman, le visite mediche, le serate a teatro e un viaggio a sorpresa ad Amsterdam, i due amici attraversano i confini del tempo e sembrano vivere una seconda giovinezza. Velata, ovviamente, da un filo di tristezza e di malinconia.
Nel film di Cesc Gay appaiono diversi mezzi di trasporto, dall’aereo alle automobili. I personaggi si muovono in macchina ma non disdegnano di andare, più volte, a piedi. Il movimento sembra essere uno dei temi centrali di Truman. Tomas è madrileno ma si è trasferito in Canada, dove ha formato una famiglia e insegna all’università. Julian è un attore argentino che, a sua volta, si è trasferito in giovane età a Madrid. Tempo e dinamismo caratterizzano le vite dei protagonisti del film. Il figlio di Julian è nato a Madrid ma studia ad Amsterdam. Allontanarsi da casa è il destino che colpisce tutti i personaggi di Truman. Con una serie di conseguenze: chi si muove al termine dell’adolescenza abbandona i propri migliori amici, dando una svolta definitiva alla propria esistenza. Julian e Tomas hanno mantenuto i contatti a distanza, pur non vedendosi di presenza da parecchio tempo. Cesc Gay, attraverso pochi e discreti tocchi, ha realizzato un film sulla mancanza e sull’assenza. I sensi di colpa tormentano Julian, che crede di avere pochi amici ed avrebbe voluto vivere più tempo con l’unico che abbia mai avuto. Questa storia universale, che avrebbe potuto colpire lo spettatore con un eccesso di pathos, rischiando di raggiungere persino una rappresentazione pornografica del dolore, non disdegna di attingere più volte a situazioni ironiche. Sono affidate all’istrionismo dei due attori una serie di battute che abbassano il tono e alzano il ritmo di questa vicenda, in cui l’attenzione alla sceneggiatura e alla delineazione dei personaggi evita la scrittura di particolari scene madri e riesce a mantenere, lungo tutto il corso del film, una tensione medio-alta.
Non si racconta nulla del passato dei protagonisti. Lo spettatore scopre tutto attraverso frasi non dette e sguardi mai rivolti, abbracci sofferti e commossa felicità. In soli quattro giorni, i due amici vanno alla ricerca del tempo perduto, provando a recuperarlo e ad affrontare il dramma della separazione definitiva. E, inevitabilmente, vanno incontro a gioie e dolori. Mai ricattatorio né buonista, Truman colpisce per l’intimità di certi dettagli e per la sofferenza che i personaggi portano dentro di sé, rappresentanti di un universale dolore senza età. Alla fine, basta uno sguardo, un’occhiata ed un sorriso, un qualsiasi cenno di assenso e di intesa umana, per vivere una vita dignitosa sul versante degli affetti.  

giovedì 14 aprile 2016

CRIMINAL

di Emanuele Paglialonga

Buoni, cattivi e reincarnati.
Kevin Costner, Gary Oldman e Tommy Lee Jones: tre dei protagonisti del film del giovane Ariel Vromen (che, pochi anni fa, ha presentato The Iceman alla Mostra del Cinema di Venezia). Un agente della CIA, interpretato da Ryan Reynolds, muore durante una missione e si porta nella tomba dei segreti fondamentali per salvare il mondo da una terribile minaccia terroristica. I segreti e non solo del defunto agente saranno impiantati nella mente di un pericoloso criminale (che, per delle complicate questioni biologico-neuronali è, neanche a dirlo, l’unico ricevente possibile), interpretato, appunto, da Costner. Il suo Jerico Stewart è violento e pericoloso, ma i ricordi dell’agente pian piano si insidieranno nella sua mente; non solo quelli professionali ma anche personali, legati a sua moglie (Gal Gadot, l’attuale Wonder Woman dell’universo cinematografico DC, fondato da Batman v. Superman: Dawn of Justice). E chissà come andrà a finire.

La regia di Vromen è impeccabile: la cornice action viene portata avanti in maniera dignitosa, le sequenze d’azione sono coinvolgenti e scorrevoli e tutto il cast – di ottimi attori – contribuisce a rendere credibile una storia per ovvie ragioni, almeno per ora, puramente fantastica. Il film ha due anime, una legata al thriller, ben strutturata, e un’altra psicologica, legata al dibattito in alcuni casi anche filosofico (per un pelo non si è scaduti nella retorica più trita) sulla memoria dell’uomo, sulla vita e la morte e tutto il resto. Anche questa parte è ben strutturata, a livello visivo come a livello di sceneggiatura: non è reale nel mondo fuori dalla sala, ma sullo schermo è verosimile. Questo è il cinema.
Se tutto va bene madama la marchesa, perché, allora, questo film è dimenticabile, e, probabilmente, non farà sfaceli nei botteghini di tutto il mondo? Difficile a dirsi. Le ipotesi principali sono due: che le due anime del film, di cui sopra, cozzino fra di loro. I presupposti ci sono tutti, gli ingredienti sono buoni e ben amalgamati, eppure saranno in pochi a ricordare le scene di questo film un mese o una settimana dopo averlo visto: come tanti film d’azione, pur essendo ben scritto e ben girato, cadrà inevitabilmente nel dimenticatoio, poiché nulla di nuovo ha da offrire al genere, se non la cornice psicologica, appunto, che forse avrebbe meritato un altro contesto, o una riscrittura diversa, per questo film da parte degli sceneggiatori.

Un’altra ipotesi, forse azzardata o forse no, è che Kevin Costner non sia stato l’attore giusto per interpretare un ruolo di questo tipo: la brutalità del suo personaggio viene mostrata in poche scene ma non è difficile indovinare la sua redenzione già dopo la prima mezz’ora del film. Forse, un altro attore in grado di rendere meglio la crudeltà del personaggio avrebbe potuto sviluppare meglio il versante legato alla sua redenzione. Certo, la conferma definitiva arriva solo nel finale ma per la durata del film si vede Jerico agire in maniera giusta pur essendo tormentato e dilaniato dai ricordi dell’agente buono. Che dei ricordi possano tormentare la sua testa è più che accettabile, ma ci si è quasi del tutto dimenticati dello statuto di criminale, pericoloso e bestiale, che accoglie suo malgrado in sé i ricordi dell’agente.
Un thriller a metà tra lo scolastico di alto livello e la mediocrità; probabilmente, l’idea del trapianto di memoria viaggerà ancora sugli schermi cinematografici e troverà un adattamento migliore di questo.
Criminal non è malvagio, ma sarebbe potuto esserlo molto di più il Jerico Stewart di Costner.

mercoledì 13 aprile 2016

THE SEA OF TREES (#perchèsi)

di Matteo Marescalco

Non è una casualità che il titolo -Directed by Gus Van Sant- appaia, nel suo ultimo film, The Sea of Trees, in corrispondenza di una lunga strada. Lo spettatore non può non pensare alle traiettorie rettilinee di Elephant, i cui molteplici punti di vista da prospettive differenti traspongono l’esperienza videoludica in un inestricabile dedalo di vie, a partire dalla base delle videocamere di sorveglianza della Columbine High School. La mente vola verso Gerry e i suoi sentieri dell’anima, non luoghi in cui (dis)perdere la propria coscienza e rinascere, al termine di un viaggio in cui l’elemento binario, dopo un lungo movimento senza fine, che potrebbe, in realtà, equivalere alla stasi totale, trova la sua sintesi estrema nell’omicidio.
Come in Gerry, anche in The Sea of Trees incontriamo due personaggi, entrambi aspiranti omicidi di sè stessi. Uno è americano, l’altro asiatico. I due uomini rappresentano, quindi, due culture completamente differenti. Nel primo predomina l’indole razionale, nel secondo un approccio panteista. Il loro incontro avviene nella foresta dei sogni, -luogo perfetto dove morire-. Ma anche dove comprendere la propria vita e provare ad arginarne la perdizione, seguendo le briciole di pane della propria esistenza. Il viaggio non rettilineo dei due protagonisti, in preda a tortuosi percorsi e ad improvvise cadute, funge come oggettivazione del percorso vitale ed assomiglia al recente Gravity di Alfonso Cuaron. A differenza che in Gerry, però, in cui il percorso nello spazio ha la funzione di un’indagine sulla morfologia dell’ambiente circostante e in cui il versante narrativo sfiora il grado zero, limitandosi ad osservare il movimento dei due personaggi principali senza spiegare il perché dei loro atti, in quest’ultimo film tutta la delicatezza di Van Sant viene meno. Il regista americano, infatti, tende a sovraccaricare dove avrebbe dovuto alleggerire. A sottovalutare lo spettatore, spiegando l’inspiegabile. A riempire ogni vuoto, sottraendogli il necessario spazio di riflessione e di costruzione degli eventi.
La tendenza all’azzeramento della narrazione e dei dialoghi scompare sotto il peso di una filosofia new age sempliciotta in cui amor vincit omnia. Peccato. La mano di Van Sant c’è e si sente persino in questa lineare storia di rinascita americana. Un altro tema fondamentale all’interno della sua filmografia, quello della morte, torna con prepotenza. Dopo essere stato trasformato in un atto casuale e contingente, privo di spiegazioni e di importanza, e in un’accidentalità in Paranoid Park, in The Sea of Trees è proprio la morte a consentire la vita. La foresta dei sogni è una sorta di purgatorio, l’anticamera per la morte vera a propria. In questo tempo sospeso, privo di coordinate, i due uomini si aggirano a vuoto, come fossero dentro la Columbine High School. Una serie di flashback delinea la vita di uno di loro. La morte lo ha colpito da vicino. Ma in modo accidentale. E lui vuole prenderla per sé. Dall’incontro con alcuni cadaveri e con i fiori in cui si trasformano una volta che la loro anima ha definitivamente abbandonato il mondo, il comportamento dei protagonisti muta. L’amore rimane e mette sempre radici definitive.
Questo smarrimento in un luogo esistenziale è, di sicuro, meno riuscito dei precedenti film di Gus Van Sant. Eppure funziona. Escludendo le grossolane falle nella sceneggiatura e la pressochè totale assenza di lirismo, The Sea of Trees riesce comunque ad emozionare e si riallaccia al percorso filmografico del suo autore. Sempre in bilico tra produzioni hollywoodiane e spirito indipendente. Alla ricerca delle tracce che lascia dietro di sé ogni individualità prima di trasformarsi in polvere e ricordi.

THE SEA OF TREES (#perchèno)

di Egidio Matinata

Un film di Gus Van Sant. Con Matthew McConaughey, Ken Watanabe, Naomi Watts. Sceneggiatura di Chris Sparling. Musica di Chris Douridas. USA/JAP 2015. 110 minuti.

Il cinema è un'arte collettiva. La sua realizzazione si basa sull'unione di diverse individualità che tendono verso un fine comune. La visione di The Sea of Trees, ancora prima di portare a riflessioni sul significato del film, fa chiedere allo spettatore cosa debba essere un film. Purtroppo non ci troviamo di fronte all'esperimento di un film d'avanguardia, ma all'ultimo lavoro di Gus Van Sant, una delle pellicole più sconclusionate (anzi no, pasticciate è meglio) degli ultimi tempi.

La storia di Arthur Brennan, diretto verso la foresta dei suicidi del Giappone dopo una grave perdita, non pecca tanto in coerenza drammaturgica quanto, invece, nella sua realizzazione tecnica collettiva. Lo scarto tra ciò che la sceneggiatura di Chris Sparling vorrebbe raccontare e ciò che poi il film in realtà racconta si avverte già nei primi minuti, quando un Matthew McConaughey teso e rassegnato si aggira nel cupo verde della foresta, tagliata da flebili raggi di sole, accompagnato da una partitura musicale che più inappropriata non potrebbe essere: le immagini mostrano il dramma di un uomo che sta per suicidarsi, mentre i suoni raccontano "un'allegra passeggiata nel bosco". L'incontro con Takumi Nakamura (Ken Watanabe), forse un suicida pentito, è un espediente narrativo di cui è facilmente intuibile la funzione e, soprattutto, il significato al massimo dopo trenta minuti di film. Il tutto condito dalla piatta regia di Van Sant, senza guizzi, senza una precisa idea di fondo e senza una fondamentale verve allo stesso tempo intima e universale, fisica e metafisica di cui la pellicola avrebbe avuto certamente bisogno, data la storia e l'ambientazione.

Forse solo l'interpretazione di Naomi Watts esce indenne da una débâcle quasi totale. Il suo personaggio, protagonista dei flashback che si alternano alla vicenda principale, è forse di quanto più coerente si possa trovare in The Sea of Trees. L'incredulità che pervade alla fine della visione non è però superiore alla delusione: oltre alla delusione per le aspettative che si potevano avere per il film, si rimane delusi soprattutto perché ci si trova di fronte a una bella storia, ma purtroppo davanti anche a un brutto film; le due cose non vanno sempre insieme e non sono neanche scontate. Anche perché vogliamo credere a McConaughey quando afferma che -La Foresta dei Sogni era la miglior sceneggiatura in cui mi fossi imbattuto negli ultimi cinque anni- (insomma, negli ultimi anni ha avuto tra le mani le sceneggiature di True Detective e Interstellar, per citarne solo due). Peccato che il suo essersi affezionato così tanto al testo lo abbia portato certamente alla sua peggior interpretazione degli ultimi cinque anni: diviso tra apatia ed overacting, risulta, a tratti, persino fastidioso. Di questo film mi rimarrà certamente la scena in cui, stremato e infreddolito, emette un verso a metà tra un urlo e un lamento verso il cielo e la pioggia. Sublime. O quasi.

giovedì 7 aprile 2016

GRIMSBY

di Emanuele Paglialonga

Dopo Borat, Brüno e Il Dittatore, Sacha Baron Cohen porta nelle sale un altro dei suoi devastanti personaggi, Norman "Nobby" Butcher, fratello dell’agente dell’MI6 Sebastian,  interpretato da Mark Strong. Diretto da Louis Leterrier (Scontro tra titani, Now You See Me I maghi del crimine) e sceneggiato, oltre che dallo stesso Cohen, da Phil Johnston (Zootropolis, Ralph Spaccatutto) e da Peter Baynham, Grimsby racconta la storia del ritrovamento dopo circa trent’anni di due fratelli che da piccoli erano stati inseparabili ma divisi ancora bambini.
Nobby, hooligan ubriacone e idiota, super tifoso dell’Inghilterra, è cresciuto col mito del fratello: ha conservato nella sua sgarrupata dimora una camera -reliquiario per l’amato Seb, con le foto e i ricordi della loro infanzia dei quali i suoi undici scapestrati figli ne farebbero volentieri a meno. Dopo avergli messo a repentaglio vita e carriera, Nobby seguirà il fratello -agente sotto copertura- per aiutarlo a riconquistare la sua reputazione e, soprattutto, a sventare un pericoloso complotto mondiale.
Parlare di politicamente scorretto a proposito dei film di Cohen a volte sembra essere anche riduttivo: come in Borat e ne Il Dittatore, anche in Grimsby non c’è nessuna pietà, nessuna delicatezza, nessun tatto: è una comicità becera, volgare, violenta, irruente. Una slapstick comedy all’ennesima potenza che si rivela essere, per gli amanti di questo tipo di umorismo, una miniera inesauribile di risate.
Volgarità e comicità non sono, tuttavia, fini a sé stesse: la cornice narrativa è solida, il film è ben scritto, ben diretto e ben recitato; oltre alla valanga Cohen, anche la prova interpretativa di Mark Strong risulta essere più che valida. Grimsby porta alta senza paura la bandiera dell’orgoglio cafone, la feccia, come viene detto nel film, quelli che vanno allo stadio comportandosi come bestie, che combattono le guerre volute dai potenti e che tengono in piedi il franchise di Fast and Furious.
Ancora una volta, Cohen rivolge la sua attenzione agli ultimi, agli strati più bassi della società (hooligan, alcolizzati, spacciatori, adolescenti che imparano la chimica guardando Breaking Bad, famiglie numerose e finti invalidi), guardandoli senza né giudicarli e né compatirli, facendo di loro, anzi, il terzo indiscusso protagonista della storia assieme ai due fratelli Butcher. Nel film anche i camei, di due celebrità americane, uno più esplosivo dell’altro.
Volgare, ma non bello perché volgare, politicamente scorretto ma non bello solo perché politicamente scorretto, Grimsby risulta essere forte per il lavoro accurato e dinamico di scrittura e di regia presente dietro la costruzione del prodotto. Già distribuito nelle sale inglesi e in quelle americane, il film farà il suo ingresso nelle sale italiane a partire da giovedì 6 aprile, e difficilmente potrà scontentare gli amanti di Cohen, che troveranno in questo lavoro un’opera geniale, divertente ed esplosiva, della durata, ancora una volta, di soli 82 minuti: in brevitate stat virtus.