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giovedì 17 settembre 2015

EVEREST

di Matteo Marescalco

Dopo la spettacolare odissea di Gravity, ultimo episodio della trilogia del viaggio di Alfonso Cuaron, culminante nella descrizione del cammino dell'evoluzione umana, e i due piani sequenza su vizi e virtù della Hollywood contemporanea di Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu, è toccato ad Everest di Baltasar Kormakur aprire la 72esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (al link potete trovare i cinevoti dei film visti).

Tratto dal saggio Aria sottile di Jon Krakauer, già autore di Nelle terre estreme, che ha dato i natali ad Into the wild di Sean Penn, Everest vede nel grande cast un suo punto di forza. Jake Gyllenhall, Josh Brolin, John Hawkes, Jason Clarke, Robin Wright ed Emily Watson sono i protagonisti di questo dramma, ambientato sulla vetta più alta della Terra con i suoi 8848 metri di altitudine, che ripercorre la scalata del 10 Maggio 1996 gestita da Rob Hall e dalla sua società, l'Adventure Consultants.

Anche solo dando una semplice occhiata alla locandina del film, sorge spontaneo pensare al topos della montagna, tanto caro all'ambiente romantico, che ha costruito sulla sua ascensione, sull'altitudine, sull'andamento verticale e sulla sfida con le intemperie della natura, gran parte della sua poetica. Impossibile, anche, non volgere la mente alle imprese di Werner Herzog sulla natura estrema tra cui Grido di pietra e The Dark Glow of the Mountains. L'autore tedesco è stato spesso affascinato dalla natura maestosa dotata di grande bellezza ma anche di un'immane potenza in grado di distruggere l'uomo in tempi assai rapidi e che sfugge ad ogni regola. A tal proposito, Herzog ha detto: «Io credo che il denominatore comune dell'universo non sia l'armonia, ma caos, conflitto e morte. Per me, un autentico paesaggio non è solo la rappresentazione di un deserto o di una foresta. Mostra uno stato interiore della mente, letteralmente paesaggi interiori, ed è l'animo umano ad essere presente nei paesaggi dei miei film ».
 
Come in Gravity lo spazio esterno rappresentava l'oggettivazione del vuoto interiore della protagonista, donna dalle fattezze androgine impegnata in un percorso di redenzione e di rinascita individuale, e in Birdman il dedalo dei camerini e del dietro le quinte teatrali si configurava come uno spazio mentale popolato dai fantasmi della mente di Riggan Thompson, così anche lo spazio del monte Everest diventa proiezione degli spettri che offuscano le vite dei quattro scalatori protagonisti. La sfida lanciata dalla vetta e rimarcata dalla domanda di Jon Krakauer: «Perchè siete qui? Per quale ragione vi siete lanciati in questa impresa?» non fa altro che rimarcare l'esistenza di un vuoto da colmare con l'ansia di dominio nei confronti della Natura.
Natura che accoglie e abbraccia. Ma che sa essere ostile, trasformando il suo abbraccio da benevolo a mortifero.

La prima parte del lungometraggio è dedicata al racconto intimista della vita dei protagonisti in preparazione per affrontare la spedizione. Colpisce la descrizione così umana di persone che desiderano coronare il loro sogno per diversi motivi: chi per evadere dalla grigia quotidianità, chi per regalare esperienze fuori dal comune a persone ordinarie, chi per superare i propri confini e sfidare l'ignoto, chi, ancora, per una promessa fatta ad alcuni bambini d'asilo.

La seconda parte, probabilmente, spinge eccessivamente sul pedale dei sentimenti facili e sembra voler gettare lo spettatore in apnea spiattellandogli in viso, nel modo più becero possibile, la tragedia dei protagonisti. E così, tra buchi di sceneggiatura e telefonate al cardiopalma, si perde tutta la “religiosità” iniziale dello scontro con la vetta divina, in una ricattatoria discesa verso il campo base che connota come terrena l'impresa del gruppo di scalatori.

C'è, tuttavia, da prendere atto del carattere fortemente umanistico della vicenda. Nell'epoca dei blockbuster dove regna un tripudio di effetti speciali, film quali Avatar, Gravity, Everest e persino Avengers: Age of Ultron, non perdono di mira l'assoluto protagonista di ogni miracolo (e di ogni pixel) digitale: l'Uomo. Segno di un cinema (quello hollywoodiano) che, nel bel mezzo del cambiamento del proprio statuto, continua ancora ad affidarsi all'artefice concreto che gli ha dato i natali.

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