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mercoledì 20 maggio 2015

YOUTH-LA GIOVINEZZA

di Matteo Marescalco

Era molto atteso il ritorno di Paolo Sorrentino al cinema, dopo la vittoria dell'Oscar al Miglior Film Straniero con La grande bellezza
La curiosità, già elevata nei confronti dell'autore che, ricalcando Fellini, ha proposto una sua visione del vuoto della dolce vita romana ed è riuscito a conquistare (facilmente, visto l'argomento) il cuore della critica americana, è stata esponenzialmente incrementata all'annuncio del cast internazionale. Michael Caine, Harvey Keitel, Jane Fonda, Rachel Weisz e Paul Dano vanno ad aggiungersi a Sean Penn e Frances McDormand, diretti nel precedente This must be the place.

Dopo aver scandagliato le vie fisiche ed emozionali della città eterna, la macchina da presa di Sorrentino si sposta nuovamente all'estero. 
Fred Ballinger e Mick Boyle sono amici di lungo corso. Il primo è un anziano direttore d'orchestra, il secondo un regista di fama internazionale. Entrambi stanno godendosi una vacanza in un hotel sulle Alpi svizzere, in compagnia di Lena, figlia nonché assistente personale di Fred, Jimmy, giovane attore frustrato che sta lavorando su un nuovo personaggio e nientepopodimeno che di un grottesco e surreale Diego Armando Maradona. 
Fred ha smesso di dirigere da più di dieci anni e nemmeno l'invito della Regina Elisabetta lo convince a tornare sul palcoscenico. Mick, al contrario, sta preparando l'ultimo film della sua carriera, il suo testamento spirituale. 
Nello Schatzalp Hotel di Davos, luogo-simulacro che sembra accogliere icone ed artisti cannibalizzati dalla propria arte, ansie e tormenti sulla giovinezza e sulla vecchiaia, sulla vita e sulla morte, prendono corpo e circondano i personaggi principali, vittime, tutti quanti, dell'enorme circo a cielo aperto che è la Vita. 

Al termine della proiezione, si è pervasi da un'intensa malinconia, la stessa che provano i protagonisti del film, alpinisti sospesi a migliaia di metri da terra, in equilibrio precario su di un vuoto che rischia di inghiottirli, divorati dal Tempo che mozza gli artigli anche al leone. Naturale completamento de La grande bellezza (con cui condivide temi e personaggi trasfigurati in altri), Youth-La giovinezza esorta il suo protagonista a riflettere sul cammino che vale la pena intraprendere. Sacrificare se stessi (Harvey Keitel è la proiezione di Carlo Verdone) o provare ad andare avanti, spinti dalla forza che è nota con il nome di Amore? Fossilizzarsi sul proprio passato, ormai lontano anni luce, provando ad inseguire una bellezza irraggiungibile, vessata dalla decadenza, o vivere l'hic et nunc del presente, consapevoli che l'Arte trascende i confini di Spazio e Tempo? 
«Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro..» sosteneva Jep Gambardella. 
Quando tutto è finzione, eccetto che le emozioni e i sentimenti, quando gigantesche giraffe svaniscono e monaci buddisti levitano, cosa rimane costante nel tempo? La forma, l'estetica. La purezza dello sguardo. Che rischia, però, di essere fin troppo cristallino e disilluso.  

A soli 44 anni, Paolo Sorrentino dirige il suo testamento spirituale, un 81/2 in netto anticipo sui tempi ma sfiancato, come un vecchio che fa tremendamente fatica a giungere al traguardo della sua vita. 
Youth-La Giovinezza è un film ipertrofico sul versante visivo, che conferma tutte le debolezze del cinema di Sorrentino, auto-innalzatosi al ruolo di vate supremo. 
Tra sogni e paure, occasioni perse ed allucinazioni, la macchina da presa sembra un trenino che gira e gira senza sapere mai dove andare a parare, chiuso tra gli asfittici spazi di un hotel che ospita egomostri vittime della propria arte. 
Schiacciato da un surplus di aforismi didascalici e frasi da copertina, il film conferma l'incipiente vecchiaia artistica del suo autore, imbrigliato nelle solite riflessioni sui soliti temi. 
Per citare una battuta: «Che peccato, tanto impegno per cosa? Per dei risultati così mediocri...».

lunedì 18 maggio 2015

TOMORROWLAND-IL MONDO DI DOMANI


di Matteo Marescalco

«Verso l'infinito e oltre!».
Nulla più della famosissima frase pronunciata da Buzz Lightyear nel 1995 sembra essere adatto a descrivere e a trasmettere il ventaglio di sentimenti generato dal film Tomorrowland e dall'attività creativa degli studi Pixar alla cui grande cucciolata appartiene il regista Brad Bird
Dalla realizzazione di Toy Story, primo lungometraggio animato interamente in CGI a Monsters & Co., da Alla ricerca di Nemo fino ancora a Ratatouille e ad Up, la tecnologia Pixar ha compiuto passi da gigante riuscendo, tuttavia, a mantenere intatto un cuore pulsante vivo e vegeto ben protetto sotto l'involucro dell'interfaccia digitale. 
In netto anticipo sul cinema live action, la compagnia acquisita e resa indipendente da Steve Jobs, ha configurato nel cinema di animazione il passaggio da analogico a digitale non solo da un punto di vista tecnico ma anche narratologico, concentrandosi sulla trattazione di argomenti legati ai valori dell'identità e dell'amicizia, ai passaggi cruciali della crescita e dell'abbandono, ad apologie della diversità e della fede in se stessi e nei propri sogni. 
Caratteristiche che uno dei principali registi della scuderia Pixar ha mantenuto nel suo secondo lungometraggio in live action (che noi avevamo inserito nella lista dei 10+1 film più attesi dell'anno).

Il film parte dall'Esposizione Universale del 1964 a New York (ma verrà chiamata in causa anche quella del 1889 a Parigi) deputando agli scienziati “buoni” e capaci di sognare il ruolo di promotori dello sviluppo della civiltà umana e di creatori di Tomorrowland, una città futuribile situata in una specie di stringa temporale parallela.
La situazione cambia nettamente ai giorni nostri. Tomorrowland non è più quella di una volta, i suoi principali sostenitori sembrano aver perso la fede nei confronti dell'umanità che si appresta a vivere i suoi ultimi momenti. 
Protagonisti della vicenda saranno uno scienziato disilluso ed una brillante adolescente animata da una curiosità spielberghiana. Riusciranno i due eroi a portare il genere umano a credere nuovamente in se stesso?

Dal primo all'ultimo minuto, Tomorrowland sembra essere la trasposizione non ufficiale del libro La singolarità è vicina, pubblicato nel 2005 da Ray Kurzweil, informatico teorico dell'evoluzione tecnologica
La singolarità è descritta come un periodo futuro in cui il tasso di innovazione tecnologica sarà così elevato ed il suo impatto a tal punto profondo da trasformare irreversibilmente la vita. 
Alla base del pensiero di Kurzweil vi è la Legge dei Ritorni Accelerati che postula che il progresso tecnologico potenziale è attualmente sottovalutato perchè analizzato applicando i parametri di un'interpretazione lineare anzicchè esponenziale. 
La singolarità si compirà nel momento in cui il nostro cervello (con la relativa attività elettrica e, soprattutto, chimica) potrà essere installato su di un substrato computazionale, i cui circuiti elettronici sono milioni di volte più veloci dell'attività neuronale umana. 
Facendola breve, il risultato del processo, dopo «l'Ethan Hunt dal corpo attrazione ma dallo sguardo multimediale di Mission Impossible-Ghost Protocol» (*), sarà l'esatto opposto: il corpo umano sui generis che rinasce, in virtù di numerosi apporti nanotecnologici, traghetterà, viceversa, verso un substrato robotico animato da sentimenti umani. 

La fusione uomo-tecnologia e la nascita di nuovi orizzonti percettivi ed esperienziali sembrano essere inevitabili. Per alcuni, tutto questo potrebbe portare al dominio della tecnologia sull'uomo ed alla conseguente fine del mondo. Per altri, probabilmente i più ottimisti o, semplicemente, i più fiduciosi nel genere umano, la rivoluzione verso il raggiungimento dell'ideale è ad un passo. 
La stessa Tomorrowland è un mondo digitale che non può fare a meno di residui terrestri-analogici.
Brad Bird sostiene l'innesto tecnologico a fin di bene, schierandosi dalla parte degli ottimisti. A patto che l'universo sentimentale ed emozionale continui ad essere il motore dello sviluppo di un nuovo genere umano.
Senza dimenticare che, sulla scorta dell'insegnamento di Steven Spielberg, ognuno di noi, se animato dalla giusta dose di fiducia ed entusiasmo, può essere protagonista di eventi fantastici che ci attendono dietro l'angolo. 
Basta crederci.
E, naturalmente, girare l'angolo.

(*) Da Dalla sintesi del corpo alla ri-soggettivizzazione dello sguardo: "Nascita di una Nazione Digitale" nel cinema contemporaneo americano di Pietro Masciullo ne Il passato nel cinema contemporaneo, a cura di Giulia Fanara.

giovedì 14 maggio 2015

MAD MAX: FURY ROAD

di Egidio Matinata

Un film di George Miller. Con Tom Hardy, Charlize Theron, Nicolas Hoult, Hugh Keays-Byrne, Rosie Huntington-Whiteley. Avventura/azione. USA, Australia 2015. 120 minuti.

Mad Max: Fury Road è Cinema. Grande Cinema. E George Miller è riuscito in un'impresa che definire ardua sarebbe riduttivo. Già la prima trilogia di Mad Max, iniziata nel 1979, con il suo mix di violenza barbarica ambientata in un mondo post-apocalittico e dagli elementi punk vagamente futuristici, aveva influenzato gran parte del cinema d'azione che avrebbe visto la luce negli anni a venire.
Nel quarto capitolo confluiscono tutti gli elementi che avevano reso memorabili Interceptor, Il Guerriero della Strada e Oltre la sfera del tuono, totalmente immersi nel cinema contemporaneo del quale sfruttano a pieno le potenzialità.

Ossessionato dal suo turbolento passato, Max Rockatansky crede che il modo migliore per sopravvivere sia muoversi da solo, ma si ritrova coinvolto con un gruppo in fuga attraverso la Terra Desolata su un blindato da combattimento, guidato dall'imperatrice Furiosa. Il gruppo è sfuggito alla tirannide di Immortan Joe che, furibondo per il tesoro che gli è stato portato via, ha sguinzagliato tutti i suoi uomini sulle tracce dei ribelli. Ha così inizio la Guerra di Strada.

Per ammissione del regista stesso, il film è costruito come un inseguimento all'ultimo respiro, dall'inizio alla fine, «...è qualcosa tra un concerto rock estremo e un'opera». Due ore frenetiche, esplosive ed elettrizzanti che tengono incollati alla poltrona e con le mani salde sui braccioli (del cinema s'intende, no streaming please).
Costruito alla perfezione, Fury Road è un prodotto senza sbavature che non dimentica l'anima e lo spirito dell'opera originale, ma utilizza a piene mani la spettacolarità che il cinema odierno mette a disposizione. Ed è una spettacolarità, strabordante, ma soprattutto elegante. Non si può non elogiare un comparto tecnico di tale fattura: dal montaggio che rende comprensibilissime scene d'azione concitate al massimo, alla fotografia che regala momenti di pura emozione con dei colori saturi sia nelle scene diurne che notturne, alle componenti sonore (sia diegetiche che extra-diegetiche).
Il film riesce ad essere esteticamente poderoso, sia sul versante della ricchezza visiva che su quello degli elementi scenografici che caratterizzano questo mondo al capolinea della civiltà e i personaggi che lo popolano. Miller innova, rimanendo fedele a se stesso, anche i personaggi; infatti troviamo nella Furiosa di Charlize Teron una vera e propria co-protagonista di Max: due personaggi profondamente simili, forti e allo stesso tempo vulnerabili, che vogliono semplicemente tornare a casa, ma in un mondo in cui non esiste più alcuna casa.

Mad Max: Fury Road dimostra ancora una volta come si possa fare grande cinema con budget elevati senza costruire blockbuster vuoti sul versante estetico e di significato e, cosa fondamentale, senza dimenticare mai di offrire spettacolo e divertimento al pubblico. Una doppia anima che possiamo riscontrare anche nel suo interprete principale, Tom Hardy: capace di interpretazioni sublimi in una tipologia di cinema non mainstream e allo stesso tempo di essere l'erede del cinema muscolare del passato.
Ora la domanda sorge spontanea: siamo di fronte ad un nuovo inizio (sia della saga che dell'action futuro)? Noi speriamo di si, perché, senza dubbio, ci troviamo di fronte ad uno dei migliori film d'azione degli anni 2000.

venerdì 8 maggio 2015

IL RACCONTO DEI RACCONTI: LA CONFERENZA STAMPA

di Matteo Marescalco


Questa mattina è stato presentato al Cinema Adriano di Roma, alla presenza dell'autore, Il racconto
dei racconti, ultimo film di Matteo Garrone. Il lungometraggio sarà in concorso al prossimo Festival di Cannes ed uscirà in Italia il 14 Maggio. Di seguito il resoconto della conferenza. 

Perchè hai scelto di portare sullo schermo le fiabe di Basile?
Per la mescolanza tra reale e fantastico che le rende simili ai miei precedenti film. Vengo dalla pittura e la raccolta di Basile è molto vicina alle mie caratteristiche artistiche. Si tratta anche del primo libro di fiabe scritto nel 1600, che ha ispirato autori quali i fratelli Grimm e Charles Perrault. In genere, sono sempre partito dalla realtà contemporanea per poi trasfigurarla. Qua, invece, ho compiuto l'operazione opposta: sono partito dalla dimensione magica e l'ho adattata ad un contesto realistico. Spero tanto che il film dia a Basile la possibilità di raggiungere il grande pubblico. 

Perchè un fantasy?
Ho fatto una scelta masochistica ed incosciente in un momento in cui volevo mettermi nei guai. La lavorazione è stata molto difficile, pensavo di divertirmi tanto e invece non è andata proprio così. Molte soluzioni tecniche per me sono state nuove, lavorare con il green screen sul set è stato frustrante. Ho dovuto abbandonare alcuni miei stilemi per ragioni economiche. Quando si lavora con grandi cifre, è necessario effettuare un compromesso. 

La cultura partenopea è presente. Ha mai pensato ad un adattamento in napoletano?
A dire il vero si. Abbiamo escluso subito questa possibilità che avrebbe immediatamente suggerito una serie di provincialismi evitabili. Il nostro obiettivo era creare un qualcosa che potesse raggiungere la massa. Un prodotto facilmente esportabile. Abbiamo preferito far venire inglesi ed americani da noi anzicchè fare il contrario. 

Suggestioni pittoriche e filmiche?
Gli autori che amo sono tanti. Di sicuro ho dato un'occhiata a I capricci di Goya. Poi ho amato le prime stagioni di Game of Thrones. Per quanto riguarda la scena cinematografica, ammiro molto Mario Bava, L'armata Brancaleone, Pinocchio di Comencini e i corti di Pasolini tra cui La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole?

Come hai gestito gli effetti speciali e la scelta della location?
Non ero abituato a gestire problemi tecnici del genere. Abbiamo provato a lavorare dentro il genere mantenendo però una nostra personalità autoriale. L'artificio si sente ed è presente, ma le immagini hanno una loro verità e credibilità. Lo scopo degli effetti digitali era mantenere il corpo e la materia. La carne è stata il nostro centro focale. Per quanto riguarda le location ho amato particolarmente le Gole dell'Alcantara in Sicilia. Abbiamo provato a renderle fittizie. Si tratta di un luogo reale che sembra ricreato in CGI. I luoghi spesso suggeriscono idee che poi si trasformano in drammaturgia. Come ad esempio una scena che abbiamo inserito dopo aver trovato un labirinto nei pressi del castello di Donnafugata.

Come avete ricostruito le creature di fantasia?
Abbiamo utilizzato la grafica digitale e anche dei modellini sul set. Volevamo creare un qualcosa di vero non à la Harry Potter ma di praticamente tangibile. 

Il film sarà presentato a Cannes insieme a Mia madre di Nanni Moretti e a Youth di Paolo Sorrentino. Che ne pensi?
Si tratta di una grande opportunità per il cinema italiano. Siamo tre registi profondamente differenti. Speriamo vada bene per tutti e tre. Io non punto a Cannes ma ad un buon consenso popolare. Per me questo film è stata una grande scommessa e spero che venga riconosciuto dal pubblico. 

Chi sono Nico e Marco a cui è dedicato il film?
Nico era mio padre e Marco Onorato il direttore della fotografia di tutti i miei film. Diciamo mio padre putativo. 

Quanto è costato il film?
12 milioni tutto compreso. Girare con Salma Hayek e Vincent Cassel non è stato facile. Hanno un cachet notevole e non ho potuto girare in sequenza. 

In quante copie uscirà?
Più di 400. Uscirà in corrispondenza alla presentazione a Cannes quindi magari le copie verranno incrementate. 

IL RACCONTO DEI RACCONTI: LA RECENSIONE

di Matteo Marescalco

Tra suggestioni silvane e contaminazioni pittoriche si dipanano le tre vicende del film. L'atmosfera fiabesca è la stessa di Reality. Non cambia neppure il clima inquietante ed onirico. Ad impreziosire ulteriormente il racconto si aggiunge il gusto dell'orrido nel tratteggiare i corpi e la pelle dei personaggi sottoposti al terribile giudizio del Tempo e dell'Amore che, letteralmente, scorticano le proprie vittime. C'è chi insegue una bellezza perduta e, probabilmente, irraggiungibile, chi si lascia irretire dalle avances del Potere e chi vorrebbe piegare a proprio piacimento il Destino. In questo circo grottesco ed efferato che è il mistero della Vita, i personaggi si muovono come tanti equilibristi in bilico su pericolosi strapiombi da cui non riusciranno mai a salvarsi. 

«To Nico and Marco» recita la dedica finale, prima dei titoli di coda, dell'ultimo film di Matteo Garrone. Impossibile, in effetti, non pensare ad un omaggio a Marco Onorato, fido direttore della fotografia che ha preso per mano Garrone e lo ha accompagnato durante tutta la sua carriera artistica, da Terra di Mezzo a Reality

Ma facciamo un passo indietro, riavvolgiamo il nastro e torniamo all'inizio del film. 
Una donna vestita in abiti circensi, tallonata dalla macchina a mano che parte dalla sua ombra, ci introduce nel mondo medievale di Giambattista Basile, che, con il suo Lo Cunto de li Cunti ha fornito il materiale di partenza. La raccolta è composta da 50 fiabe in lingua napoletana ed è stata pubblicata tra il 1634 e il 1636. Il Pentamerone (l'opera è nota anche con questo titolo) ha influenzato Charles Perrault, i fratelli Grimm e Christian Andersen, favorendo la genesi di fiabe quali Cenerentola, La bella addormentata nel bosco e Il gatto con gli stivali.   

Il tema del doppio è subito introdotto. Le tre fiabe selezionate (la cui resa risulta però poco compatta), La cerva fatata, La vecchia scorticata e La pulce sono tutte accomunate da questo tema, dalla presenza di figure femminili di differente età e dall'ossessione di Garrone per la pelle, che trova ulteriore conferma in questo suo ultimo film.

Nel primo episodio la regina è disperata perchè non riesce ad avere figli. Su consiglio di un negromante, mangia il cuore di un drago marino cucinato da una vergine. Questa azione avrà però delle ripercussioni sulla sua vita. 
Il secondo episodio è incentrato su due vecchie sorelle lavandaie. La soave voce di una delle due viene udita dal Re di Roccaforte che le chiede invano di mostrarsi ma che non conosce il suo reale aspetto. Anche in questo racconto, la magia genera conseguenze da cui non si può tornare indietro.
Infine, l'ultima fiaba racconta di un re che cattura una pulce e ne fa il suo animale domestico. Alla sua morte, è costretto a dare in sposa  la propria figlia ad un orco che è stato in grado di riconoscere a quale animale appartenesse quella pelle.   

Si diceva che il doppio è uno dei temi centrali del film. Le continue dicotomie tra l'ordinario e lo

straordinario, il magico e il quotidiano, l'artigianale e l'artefatto, il terribile e il soave, la luce e il buio attestano l'interesse di Garrone nei confronti della commistione tra reale e fantastico che ha sempre caratterizzato la sua ricerca artistica. 
Il racconto dei racconti trova le sue radici nei sentimenti e nei desideri umani spinti all'estremo fino al famigerato punto di non ritorno. Si racconta del debole confine che separa la fiaba dalla realtà e di quanto sia ingenuo e pericoloso modificare il corso della vita perchè ad ogni azione corrisponde sempre una reazione. 

Secondo Garrone: «Il racconto dei racconti rappresenta la naturale evoluzione della mia ricerca artistica. Ho sempre cercato di partire dalla realtà contemporanea e di trasfigurarla. In quest'ultimo progetto invece ho fatto esattamente l'inverso. Siamo partiti da una dimensione magica e l'abbiamo portata ad un contesto realistico». 

Denso di riferimenti pittorici, si va da I capricci di Goya a suggestioni rembrandtiane e preraffaellite, ogni episodio del film è caratterizzato da tonalità cromatiche differenti che sembrano riflettere il carattere e i desideri dei suoi personaggi. 

Come in Reality, anche in quest'ultimo film il regista ha posto la lente d'ingrandimento sui personaggi, osservati al microscopio con l'interesse di un entomologo. Non c'è spazio alcuno per la redenzione. 
L'ultima sequenza, tanto affascinante quanto irrisolta, chiude il film con l'immagine iconica di un circense che cammina sospeso su una fune che va a fuoco. È questo il terribile gioco della vita. Le infrazioni non sono ammesse. 

Ondeggiando tra realismo e finzione, con accensioni barocche e gotiche, Il racconto dei racconti è un blockbuster atipico che chiede allo spettatore un atto di fede. Dimenticate botti, esplosioni e mazzate e tenetevi pronti ad assaporare tutta la passione pittorica e cinematografica del regista. 
Diversi sono i momenti in cui si sfiora l'horror, tutti quanti volti a sottolineare il fascino macabro del primitivo e il lato mostruoso dell'essere umano. 

Ogni film del regista romano sembra essere un mondo a sé stante, dotato di vita propria. Reality
iniziava con un piano sequenza in cui la macchina da presa ci conduceva nel bel mezzo di una cerimonia matrimoniale dai richiami felliniani e terminava con una carrellata all'indietro da un punto di vista divino che mostrava il personaggio principale immerso nel vortice delle proprie fantasie. 
Il racconto dei racconti, allo stesso modo, conduce lo spettatore alle radici del mistero della vita, svariando tra Amore e Morte, senza mai abbandonare il tono funereo e pessimista che lo caratterizza principalmente.