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giovedì 30 aprile 2015

LA GUERRA DEI SESSI IN LAS BRUJAS DE ZUGARRAMURDI

di Macha Martini

«Corri Cristo!». 
Le immagini scorrono frenetiche sullo schermo. Attaccano lo spettatore. Lì, fermo. Indifeso. Gli occhi sgranati, la bocca spalancata. Gag inspiegabili e geniali che lasciano il pubblico stupefatto. Il tutto shakerato a momenti di horror capovolto (non incutono terrore, anzi, creano situazioni paradossalmente esilaranti). Un interessante e particolare, forse a molti tratti trash, cocktail effervescente
I protagonisti? Pedine della società moderna nascoste dietro clowneschi e fantastici personaggi che scappano veloci. Streghe e disadattati cronici. Donne e uomini

Zugarramurdi, il cuore tetro e nascosto della Navarra Occidentale. Una moto scorre sull’asfalto. Tre fattucchiere. Un piano diabolico architettato per avere la propria rivendicazione sugli uomini. Irrompono i titoli d’inizio. Si mischiano immagini storiche della stregoneria e foto di donne attuali. Si lega il macrocosmo dell’immaginario fantastico collettivo e il microcosmo della figura attuale della donna, ad anticipare il tema che sarà trattato. Comincia il frizzante film di Álex de la Iglesia, che con questo suo ultimo lavoro usa un ironico mondo gotico per riflettere sulla guerra dei sessi nella società odierna.

Dialoghi vivi, brillanti, svegli, spumeggianti, con vari riferimenti cinefili. Montaggio ritmicamente acceso e dinamitico. Nulla è scontato. I personaggi, volutamente macchiette pantagrueliche e gargantuesche, calcano sulle difficoltà incontrate dagli uomini in relazione alle donne, che stanno assumendo sempre di più le redini nelle relazioni. 
Donne hitleriane s’infuriano ed evidenziano le carenze degli uomini, totalmente impacciati, che tentano di far risalire la propria autostima con un furto (ironicamente un furto di anelli nuziali, simbolo di promesse mancate). Incappano però in Zugarramurdi, legata al mondo delle streghe (nel 1610 l’Inquisizione condannò 11 persone, che furono arse vive), le più rappresentative del bagaglio di frustrazione che il mondo femminile ha dovuto portarsi dietro per anni e anni di storia. 
In tutto questo, gli uomini sembrano impotenti pedine che vagano (o meglio corrono), quasi nel buio, in una scacchiera rabelaisiana in mano a due giocatrici. In una sedia abbiamo donne forti e potenti che vogliono solo vendicarsi sul genere maschile che per secoli, e in parte ancora oggi, ha cercato di sopprimerle, relegandole in casa. Megere più che streghe. 

Loro rivale è un altro tipo di donna, Eva, interpretata da Carolina Bang, il pizzico di spezie in più che rende succulento Las brujas de Zugarramurdi, soprattutto grazie alla sua effervescente mimica dello sguardo, che buca costantemente lo schermo e conquista lo spettatore, pungendolo vivamente nel suo voyeurismo, che lo spinge a spiarla, come Tony e José (due tragici protagonisti di questa partita a dama), da dietro la fessura di una porta nel suo esibizionismo volutamente spinto al massimo. Eva è la riproduzione delle prime streghe, ovvero, delle sacerdotesse del dio Pan, legate alle forze della natura ed è così infatti che si presenta in più scene, come una forza della natura appena scatenata. Il nome di sicuro non è casuale. Eva come la prima donna secondo i miti biblici. Eva de Las brujas de Zugarramurdi è l’incarnazione della prima donna e, sia caratteristicamente, ma anche a livello logico di rimando, della prima strega. Indizio quasi fondamentale per due ragioni: d’interpretazione (donne streghe e disadattati cronici, fortemente derisibili, uomini) e intradiegetico di rovesciamento (legato alla religiosità cattolica del regista spagnolo). Se l’Eva biblica, infatti, conduce Adamo alla perdizione, il personaggio di de la Iglesia viene condotto invece, in una famiglia stregonesca dove la perdizione è il “bene”, da José (un uomo che all’inizio del film conosciamo come raffigurazione di Cristo) alla serenità (o quasi), data dalla nascita di una complicità tra donna e uomo (dove però, si rimarca, è la donna la testa e l’uomo è il braccio sotto le redini femminili).

Partendo da una metafora quasi fantasy, nel film si mette a fuoco un problema concreto: il
nuovo ruolo delle donne in una società su cui si stanno abbattendo pian piano i muri maschilisti e le difficoltà degli uomini davanti a tale cambiamento. Nel farlo, il regista destruttura il genere horror portando in scena una delirante commedia nera che viaggia tra derisione tanto del genere maschile (mostrato come carente e impacciato) quanto di quello femminile (si accentuano gli stereotipi misogini sulle donne, in modo molto comico, e anche i luoghi comuni, spesso distorti). 
Esagerando baroccamente, si ha un eccitante mix originale di generi commerciali. Anche se pecca nella resa degli effetti speciali (molto “caserecci” soprattutto per un pubblico abituato ai film delle grandi case produttrici statunitensi) e per la gestione finale dei tempi di scrittura, Álex de la Iglesia cattura il pubblico con una messa in scena elettrizzante, che ti colpisce passo dopo passo. L’effetto è di un piacere quasi perverso che scorre veloce come le immagini del film.

lunedì 20 aprile 2015

AVENGERS: AGE OF WHEDON

di Matteo Novelli

Inizia in corsa la nuova avventura degli Avengers. Neanche il tempo di veder scorrere il meraviglioso logo Marvel che ci ritroviamo in piena missione con i nostri eroi preferiti. Parte così Age of Ultron, carico: Whedon corregge il tiro rispetto al primo capitolo, controbilanciando la  regia alla sua grande capacità di scrittura. Piani sequenza vorticosi, combattimenti perfettamente coreografati, eleganti momenti di intimità. L'universo cinematografico messo in piedi da Kevin Feige è ormai una creatura matura, indipendente: non serve riallacciarsi al film precedente per portare avanti le gesta degli eroi più potenti della Terra. Quelle avventure non si sono mai fermate, proseguono anche quando noi non le vediamo.
Vista in quest'ottica si perdonano alcune ingenuità nei confronti degli spettatori meno esperti che, se non accompagnati da un amico fumettaro, potrebbero perdersi nel marasma di personaggi, storylines e riferimenti vari: dai gemelli Maximoff al Wakanda, passando per vibranio e gemme dell'infinito.

WHEDONVERSE: WHY WE FIGHT?

Chi conosce il lavoro di Joss Whedon fin dagli esordi, come chi vi scrive, saprà riconoscere il film come la summa stilistica dell'autore. In Age of Ultron c'è tutto Whedon, e non solo perché  lo scrive e dirige. Un'intera poetica che si materializza nelle caratterizzazioni dei personaggi, nella descrizione delle vicende, nel saper districare perfettamente i fili di trame e sottotrame. E allora, ecco l'immancabile ironia, il coraggio del sacrificio, l'importanza dell'amicizia, le storie d'amore impossibili tra esseri apparentemente distanti, il nemico invincibile, i cattivi che diventano buoni e i buoni che diventano cattivi, l'importanza dell'uomo normale.
Quello che fa spesso Whedon è raccontarci di un gruppo di persone che si ritrovano ad affrontare, insieme, minacce apparentemente impossibili. Tra di essi si distingue sempre un geek, un particolare individuo che resta nell'ombra rispetto agli altri. Sembrerebbe il meno utile perché meno dotato di poteri o scintillanti armature. Non ha scudi da lanciare o fulmini da invocare: combatte lo stesso pur sapendo, più degli altri, che potrebbe rimetterci la vita. Joss Whedon ama i super poteri, ama le grandi battaglie, ama gli eroi: ma adora anche gli esseri umani. La persona comune che, da sola, si erge contro qualcosa di più grande per fare la cosa giusta. In Buffy era Xander, in Angel avevamo la dolce Fred, in Cabin in the Woods il fumato Marty, e così via. Qui abbiamo Occhio di Falco: attraverso lui Whedon ci insegna che da grandi affetti derivano grandi responsabilità.

THE HEART OF A HERO

Il cuore è al centro in Age of Ultron. Lo è in diversi momenti, tra una battaglia e l'altra. L'uomo normale può affrontare, giorno dopo giorno, sfide sempre più ardue? Sì. E dove la storia prende delle pause dall'azione e dai piani malvagi di Ultron il film fa centro: i momenti di emotività, le paure dei personaggi, i loro atti di coraggio e la loro voglia di non arrendersi sono i motivi che tengono in piedi la vicenda. Non ci basta vedere delle persone in maschera scontrarsi per due ore su uno schermo gigante. Ci servono le motivazioni, cosa rende quei personaggi ciò che sono. Ancora una volta sono i sentimenti a far muovere gli ingranaggi: è la paura di Tony Stark di perdere i suoi amici a creare Ultron? Può un mostro come Hulk essere in grado di vivere una vita normale? Può una macchina sapere cosa è giusto per il mondo? Può capire la vita e temere la morte?

THERE ARE NO STRINGS ON ME

L'era di Ultron è un po' una parabola sul nostro tempo. Chi è Ultron? Originalmente creato da Henry Pym nei fumetti, nel film viene creato da Tony Stark per proteggere il mondo dalle future minacce. A che servono i Vendicatori se a difendere il pianeta ho un più che efficiente sistema di difesa? Un'armatura intorno al mondo, così viene definita dal personaggio di Robert Downey Jr. Come saprete già dal trailer, l'intelligenza artificiale avrà da ridire in merito. Potrebbe far storcere il naso il fatto che Ultron sia già malvagio a pochi secondi dalla sua creazione. Gli basta una ricerca multitasking su internet per prendere la decisione che l'uomo è la vera piaga sul pianeta. Si nutre di tutta la conoscenza che riesce ad assimilare attraverso la rete: ha sempre la battuta pronta, la risposta giusta, la nozione corretta e l'ultima parola. In pratica, il vero nemico di Age of Ultron è l'utente medio di Facebook.
Il cyborg è in grado di pensare ma non ha un cuore: gli manca l'anima, non può provare sentimenti. Non conosce l'amore. Solo l'odio. Il villain più di una volta fa riferimento a dei fili, citando a più riprese il Pinocchio disneyano, se la prende con gli umani accusandoli di essere intricati in essi. Non ha fili che lo legano, non ha legami: ad esclusione di quello con il proprio padre putativo Tony Stark, legame che più di tutti lo infastidisce e che cercherà di troncare in ogni modo.  Ultron è un villain che odia l'umanità perché legata e intrecciata a dei fili: quei sentimenti da lui tanto ignorati, incompresi e sottovalutati. La sua natura calcolatrice e propedeutica lo rendono il villain perfetto per un film che mette al centro proprio i legami, i fili, tra i personaggi.
Poi certo, è anche un robot psicopatico, teofilo, capace di riprodursi e rigenerarsi all'infinito e dotato di un'armata di cloni.

IL FUTURO E LA PROSSIMA ERA

La trama orizzontale delle varie fasi dell'universo cinematografico Marvel viene portata avanti anche in questo film. Joss Whedon dissemina nel corso del film le prime avvisaglie di quella tanto famigerata Civil War. I dettagli che emergono durante il film ci permettono di intuire già gli schieramenti sia a livello microscopico che macroscopico. Preferireste cullarvi nella tecnologia della Avengers Tower di Stark o ritirarvi a vita privata in campagna: vita tranquilla o sotto i riflettori? Eroi o Supereroi? Sembrano due etichette simili, ma non lo sono. Whedon lascia i compiti pronti ai fratelli Russo, pronti a  prendere in mano le redini del franchise.
Gli avvenimenti e i conflitti portati a galla in Age of Ultron non resteranno circoscritti all'ottimo capitolo di un sontuoso blockbuster. Mentre noi non guardiamo, la fase tre si prepara ad accoglierci.
La fine dell'era di Whedon è una lunga maratona che non lascia respiro, conduce al traguardo con il fiatone ma con il sorriso di chi è arrivato a meta.

Ah, dimenticavo: il film è una bomba. E non solo perché ci sono giganteschi effetti speciali. L'eleganza e la maestria possono passare anche per il cinecomic, sta a voi entrare in sala trovando il coraggio di volare. 

AVENGERS: AGE OF ULTRON (e la rifondazione del blockbuster americano)

di Matteo Marescalco
 
Il 2005 è stato un anno fondamentale per il genere dei Cinecomics: con Batman Begins, primo episodio della trilogia dedicata all'uomo pipistrello, Christopher Nolan ha posto le basi per un nuovo approccio al mondo dei supereroi. 
Da quel momento in avanti, i film tratti dai fumetti della DC sono stati caratterizzati da una notevole introspezione psicologica dei personaggi, eroi ambigui, spesso ingiustamente rifiutati dalla società in cui operano, alle prese con problemi legati alla loro identità, ai rapporti con il passato, alla sottile linea di demarcazione tra Bene e Male, che convivono come due facce della stessa medaglia.
I film tratti dai fumetti Marvel, al contrario, si distinguono per un approccio più fracassone e spensierato, con particolare attenzione all'entertainment e per un grado di introspezione psicologica inferiore dei personaggi che, in tal modo, risultano, poco più che blocchi di marmo monodimensionali. 

Negli ultimi anni, i registi che si sono accostati ai personaggi Marvel hanno realizzato una serie di cross-over e di film team-up, lungometraggi segnati dalla presenza, nello stesso episodio, di più supereroi alleatisi per affrontare i nemici che minacciano di distruggere la Terra. 
Ecco delinearsi quello che è stato definito Universo Marvel, in cui si svolge la maggior parte delle avventure dei personaggi dei fumetti della omonima casa editrice americana. 
Ragion per cui, a differenza della scrittura filmica degli adattamenti della DC, che ha mantenuto un carattere maggiormente legato alle modalità cinematografiche classiche (sviluppo di una storia orientata teleologicamente alla risoluzione di tutti, o quasi, gli elementi in ballo), le trasposizioni Marvel sono state caratterizzate dallo sviluppo di modalità seriali, potenziate dalla supervisione di autori provenienti dal mondo della televisione (Joss Whedon su tutti). La conseguenza, ovviamente, è che ogni episodio si pone come un tramite per il successivo e come un mero strumento per portare avanti la vicenda narrata.
Fino, ovviamente, al progetto Batman v. Superman Dawn of Justice, targato Zack Snyder e Christopher Nolan, con Ben Affleck ed Henry Cavill, di cui è uscito il primo teaser trailer proprio in questi giorni (https://www.youtube.com/watch?v=IwfUnkBfdZ4) che si pone come obiettivo la creazione di un universo DC in cui Batman e Superman sono in combutta tra loro. 

Il 22 Aprile arriverà nelle sale italiane Avengers Age of Ultron, evento dell'anno che sta già turbando i sogni dei più accaniti nerd del mondo. Noi di Diario di un cinefilo (QUI trovate anche l'analisi della nostra guest star del mese, Matteo Novelli) lo abbiamo visto poche sere fa in anteprima stampa, in una sala gremita di giornalisti in fibrillazione.

In quest'ultimo episodio, che condurrà alla Infinity War, gli Avengers affrontano Ultron, intelligenza artificiale auto-cosciente progettata per aiutare a sventare le minacce ma che, tuttavia, a causa del suo intelletto superiore, si pone come obiettivo principale la distruzione del peggior nemico della Terra: l'essere umano. 

Il vero dilemma del film sembra essere: ipertecnologica Stark Tower o modesta casetta nella prateria? 
Questo è il nucleo tematico ed iconico della maggior parte dei blockbuster degli ultimi anni, che si trovano a dover rifondare il proprio statuto «dopo l'entrata massiccia dell'interfaccia digitale in ogni stadio del processo filmico» (*), e che Whedon esemplifica con quest'immagine netta. 
In un cinema che porta sempre più in scena il mondo multimediale e digitale con gli stessi mezzi, non disdegnandone anche la penetrazione "fisica", la mutazione binaria è mediata dai corpi attrazione dei suoi protagonisti. 
Così come «Tony Stark, ferito nel corpo, sopravvive grazie all'autoinnesto della macchina, rinascendo come Iron Man, il supereroe multimediale per eccellenza» (**), anche J.A.R.V.I.S., ferito nella “coscienza”, rinasce, questa volta, però, a partire dal suo innesto nell'androide nato da cellule umane, Visione. 

Avengers Age of Ultron, oltre a scontri e a botte da orbi, porta in scena la dialettica tra passato e futuro del cinema americano, che si risolve in una inevitabile fusione. É il nuovo corpo umano rinato e mediato dalle tecnologie digitali che consente la sopravvivenza della Terra.

(*), (**) Da Dalla sintesi del corpo alla ri-soggettivizzazione dello sguardo: "Nascita di una Nazione Digitale" nel cinema contemporaneo americano di Pietro Masciullo ne Il passato nel cinema contemporaneo, a cura di Giulia Fanara.

venerdì 17 aprile 2015

MIA MADRE. NANNI MORETTI ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

di Matteo Marescalco
 
Sono trascorsi ben 37 anni da quel famoso: «Rossi e neri sono tutti uguali? Ma che, siamo in un film di Alberto Sordi?», 26 anni ci separano dal Palombella rossa di: «Ma come parla?! Le parole sono importanti?! Come parla?!» ed, infine, 17 anni dalla famosa tirata: «D'Alema, di' qualcosa, reagisci, di' qualcosa di sinistra!».

Nel 1976, hanno debuttato Nanni Moretti ed il suo eteronimo, Michele Apicella, giovane incazzato e sbruffone del cinema italiano che, nel 1977, durante la trasmissione televisiva Match, ha osato addirittura sfidare, con tono presuntuoso, Mario Monicelli, padre della commedia all'italiana, in un duello “storico” tra vecchia guardia e figli del '68. 

Nel corso degli anni, il regista di Brunico si è affermato come uno dei principali autori italiani, costantemente in bilico tra percorso autobiografico (e, di conseguenza, autoreferenziale) ed attenzione alla realtà contemporanea. Creatore delle più esilaranti e ficcanti battute nate dal cinema italiano dell'ultimo quarantennio, entrate ormai a far parte, come citazioni, del linguaggio quotidiano, Moretti ha fidelizzato uno zoccolo duro di pubblico attorno al suo personaggio, quel Michele Apicella critico nei confronti dei luoghi comuni, della mediocrità della generazione post '68, della crisi generazionale del periodo del boom e della volgarità dei mezzi di comunicazione. 

Tornare in sala a vedere un nuovo film di Nanni Moretti significa, un po', incontrare nuovamente un vecchio amico che ci era tanto mancato. Uno di quelli che, a prima vista, sembrano un po' altezzosi ed antipatici, pieni di sé, ma con cui non ci si sente mai a disagio. Una persona con cui poter chiacchierare di tutto, di calcio e di politica, di figli e di giri in vespa. Che ammiriamo, odiamo, invidiamo. Ma a cui vogliamo, inevitabilmente, un gran bene. 

La stanza del figlio ha rappresentato, nel 2001, una cesura nella filmografia di Moretti che aveva diretto, nel 1998, Aprile, il suo film più dichiaratamente autobiografico e, per questo, idiosincratico, in cui tutte le incertezze e le turbe del Moretti uomo trovavano pieno compimento nel Moretti personaggio fittizio. La stanza del figlio è incentrato sull'elaborazione del lutto da parte di una famiglia che si trova a fare i conti con l'improvviso decesso del giovane figlio. Nel 2011, è toccato ad Habemus Papam proseguire il nuovo itinerario intrapreso da Moretti che continua, sempre più, a defilare la propria immagine, per assumere un ruolo secondario e lasciare spazio ad altri personaggi. Qui, il regista ed attore interpreta, per la seconda volta dopo La stanza del figlio, il ruolo di psicanalista. Sembra che lo stesso ruolo suggerisca una maggiore attitudine all'ascolto piuttosto che alla critica urlata. 

In Mia madre, l'atteggiamento del regista è definitivamente cambiato. «Il mio obiettivo era quello di
defilarmi e di evitare una mia prova muscolare per mettere, invece, gli altri al centro dell'attenzione», ha ammesso Moretti durante un'intervista.
Lo stesso inizio di quest'ultimo film sembra portare in scena questo dilemma: partecipare ed urlare o scostarsi ed osservare? 
Il Moretti degli ultimi lavori, letteralmente, «sta accanto» ai suoi personaggi, riuscendo ad abbracciare una visione sulla loro vita e sulla società contemporanea mediata dalla maggiore distanza. 

In un turbinio di emozioni reali, finzione cinematografica, finzione nella finzione e cortocircuiti di natura onirica, ci troviamo a rivivere il dramma di Margherita e Giovanni, quello di un fratello e di una sorella che fanno i conti con l'imminente morte della madre, docente di latino al liceo. Il rimando alla vicenda autobiografica è molto forte (ed è ulteriormente confermato dall'evidente dichiarazione dell'aggettivo possessivo) ma è, allo stesso tempo, come si diceva prima, mediato dall'assunzione di una differente consapevolezza da parte del regista che mostra, mettendosi a nudo ma mai senza pudore, un profondo disagio e senso di inadeguatezza. Gli stessi sentimenti che provava, nel precedente Habemus Papam, un pontefice che desiderava essere dappertutto eccetto che sul soglio pontificio, non adatto ad un ruolo per cui, come Margherita: «Tutti pensano che io sappia interpretare la realtà, ma io non capisco più niente».

Mia madre è costruito su una stratificazione di livelli, è un continuo gioco di specchi in cui i protagonisti entrano in contatto e si misurano direttamente con i loro fantasmi e le paure più nascoste. Abbondano i momenti ironici, affidati all'istrionismo di John Turturro, metafora di un corpo attoriale vittima del sistema cinematografico statunitense, ma anche quelli malinconici e dolorosi. Su tutti, la sequenza della fila al Capranichetta per vedere Il cielo sopra Berlino, film cardine sulla mancanza di radici e sulla rinascita. 

La conclusione, poi, spera in un definitivo ritorno alla realtà, che sembra ormai impossibile da raggiungere e cogliere, ma che Moretti invoca, giungendo, con toni minimali, ad attingere all'ossatura del dolore stesso cui si alterna il ricordo di un tempo e di uno spazio che si vorrebbero sempre tenere con sé ma che si devono, inevitabilmente, superare. Il difficile tema trattato, unito al suo carattere autobiografico, ad un primo aprioristico giudizio, faceva aleggiare il fantasma del narcisismo e dell'autocommiserazione, chiamato in causa per superare il dramma della morte materna. Moretti, invece, guardando agli altri con un diverso punto di vista, guarda a se stesso in maniera differente. Adesso, sembra più maturo e pacificato. Pronto ad intraprendere un nuovo viaggio in vespa. 
E noi, con lui, inforchiamo gli occhiali e indossiamo il casco. Fino alla prossima meta da raggiungere. 

martedì 14 aprile 2015

LAS BRUJAS DE ZUGARRAMURDI - LE STREGHE SON TORNATE

di Matteo Marescalco
 
Presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma 2013, finalmente, l'ultimo lungometraggio di Alex de la Iglesia verrà distribuito anche nel Bel Paese.
Prestigiatore dei più disparati generi cinematografici, dal melodramma all'horror, dal gotico alla commedia, il regista spagnolo utilizza, ancora una volta, il saldo strumento narrativo rappresentato dal cinema di genere per tessere una spassosa riflessione attorno al rapporto tra i sessi.

Dopo i divertenti titoli d'inizio, che mescolano illustrazioni di stregoneria con i ritratti di donne potenti come la regina Vittoria, la Thatcher e la Merkel, tocca alla prima macrosequenza veicolare l'effervescente ritmo narrativo del film.
Jose, dopo aver divorziato dalla moglie, può vedere il figlio piccolo solo poche volte al mese. Decide, così, di portarlo con sé ad una rapina in un Compro oro, al termine della quale, dopo un delirante inseguimento in auto, i due, insieme al complice e allo sventurato taxista che hanno sequestrato, giungono in un paese popolato da streghe.
Zugarramurdi esiste realmente e, in passato, è stato protagonista di un clamoroso caso di stregoneria, represso dall'inquisizione spagnola. Nel lungometraggio di de la Iglesia, il paese basco si trasforma nell'ambientazione gotica della terribile lotta tra le streghe donne, che sono alla ricerca di un bambino da immolare alla Grande Madre (una gigantesca Venere di Willendorf) e gli sfaccendati e subalterni uomini.

Come nel recente ed acclamato Balada triste de Trompeta (Ballata dell'odio e dell'amore), in cui de la Iglesia usufruiva della figura di un clown come traghettatore tra le vicende politiche spagnole del Novecento, Las Brujas de Zugarramurdi (Le streghe son tornate) si accosta alla situazione spagnola contemporanea, a partire dalla metafora offerta dalle figure delle streghe. Questa commistione tra macrocosmo collettivo e microcosmo individuale sembra essere una prerogativa tutta spagnola e rimanda all'ultimo film di Pedro Almodovar, Gli amanti passeggeri, in cui un aereo con palesi difficoltà ad atterrare a causa di un problema tecnico, si ergeva a rappresentante dello stato di crisi di un Paese al collasso.

Caratterizzato da una notevole gestione del ritmo, degli intrecci e dei dialoghi, il lungometraggio gioca con alcuni luoghi comuni, evitando, però, di cadere nel maschilismo e di risparmiare cattive sferzate ad ambo i sessi.
Peccato soltanto per l'incontrollata accelerazione che rischia di far deflagrare il film in un finale apocalittico in cui le dimensioni gargantuesche minano la tenuta complessiva dell'intreccio.

Estremo, folle e scoppiettante, il cinema di de la Iglesia conferma la propria forza nell'iperbolica rappresentazione del mondo e pone nell'esagerazione e nella distorsione la chiave di lettura della realtà.

sabato 4 aprile 2015

HUMANDROID

di Egidio Matinata
 
Un film di Neill Blomkamp. Con Sharlto Copley, Dev Patel, Hugh Jackman, Yolandi Visser, Watkin Tudor Jones, Sigourney Weaver, Jose Pablo Cantillo. Fantascienza. USA, Messico, Sud Africa 2015. 120 minuti.

Neill Blomkamp è una delle nuove leve che, insieme ad altri registi come Duncan Jones (Moon, Source Code) e Gareth Edwards (Monsters, Godzilla), stanno dando nuova linfa al genere fantascientifico attraverso opere originali. Il regista sudafricano torna, dopo Elysium, nella natia Johannesburg per raccontare la storia di Chappie (titolo originale del film).

In un futuro non molto lontano, le forze di polizia hanno deciso di contrastare la crescente ondata di criminalità schierando fra le proprie fila una nutrita pattuglia di droidi, creati dalla pionieristica azienda Tetravaal e progettati dal giovane genio Deon Wilson: grazie a questa scelta, le vite umane degli agenti di polizia non saranno più a rischio. Ma il sogno di Deon punta ancora oltre: creare la prima intelligenza artificiale senziente, in grado di provare le stesse emozioni della mente umana. Ad arricchire la vicenda contribuiranno un trio di criminali sgangherati all'inseguimento del colpo della vita e l'ex militare Vincent Moore (Hugh Jackman in un'inedita veste da villain).

Ciò che rende il film migliore di quanto non possa sembrare, in realtà, è da ricercare proprio nei sottotesti e nelle tematiche insite nella pellicola, che rischiava facilmente di scivolare nell'oblio della banalità. Perchè l'apparato tecnico del film è indiscutibilmente valido, e la messa in scena di Blomkamp ripropone l'originale connubio tra realtà riportata con stile quasi documentaristico e l'anormalità dell'"altro" che vediamo presente nel mondo (qui sono i robot, in District 9 erano gli alieni). 

Alcune sequenze, di azione e non, si avvicinano a divenire ridicole in modo involontario e potevano essere gestite in maniera diversa. Ma, in fin dei conti, il film, complessivamente, è superiore alla somma delle singole part; la profondità degli argomenti trattati avrebbe avuto, apparentemente, bisogno di un trattamento e di un tocco diverso da quello della maggiorparte dei blockbuster di oggi, e per fortuna Humandroid non fa parte di questa cerchia. Anche in questo caso, come nell'esordio di Blomkamp, l'essere umano si riconosce nel contatto con l'altro, con il diverso, ma l'ironia tragica che sta alla base della pellicola riguarda il robot senziente che, capace di provare sentimenti, apprende gli insegnamenti e riesce a metterli in atto e a rispettarli meglio dei suoi educatori. E, nel finale, si va anche oltre: nonostante siano frettolosi e semplicistici, gli ultimi minuti pongono una domanda intrigante, anche se non totalmente innovativa: la vera evoluzione sarà nella simbiosi tra la coscienza umana e l'apparato delle macchine?

Humandroid è un film di intrattenimento superiore alla media odierna, con una colonna sonora che presenta un interessante connubio tra Hans Zimmer e i Die Antwoord e con momenti che raggiungono grandi profondità di senso. Visivamente e tecnicamente validissimo.

P-RE-censioni - REcensioni PREsuntuose di Pietro* (*Tutto quello che avreste voluto sapere sui film del mese che noi non abbiamo avuto il coraggio di guardare) - Volume TRE

P-RE-CENSIONI - REcensioni PREsuntuose di Pietro  è la nuova rubrica mensile di Diario di un Cinefilo. Confidando nel vostro intelletto e sperando che non verrete a cercarci per punirci della satira politically scorrect da noi prodotta (si, la satira, ultimamente, sta andando parecchio di moda), vi forniamo una serie di recensioni aprioristiche e prevenute su film che non abbiamo ancora visto e che, in effetti, non abbiamo la più pallida intenzione di recuperare. Qua contano solo le nostre idee. Le vostre no. Vi forniamo anche una brevissima guida sulle modalità di utilizzo delle vostre opinioni. Al prossimo mese! 



Sarà che si avvicina l'estate, ma sembra che uscite interessanti non ce ne siano parecchie, purtroppo...

Fast and Furious 7 - Esce il 2 aprile, un giorno prima e sarebbe sembrato uno scherzone, invece...

La scelta - Michele Placido alla regia, Raoul Bova e Ambra Angiolini nel cast.... «Una scelta di coraggio per la coppia Angiolini/Bova" si trova in molte news sul film, l'unico vero coraggio sarà quello di chi va a vederlo al cinema pagando un biglietto».

Mia madre - dodicesimo lungometraggio di Moretti, di cui si sconoscono, ancora, cast e trama (bella trovata pubblicitaria alternativa, ma funzionerà?!)

Summer in love - se dopo lo scioglimento della coppia Boldi-De Sica speravate che il cinemerdettone fosse definitivamente e finalmente morto, vi sbagliavate, la nuova merda arriva dal basso: a partire dalla squallida e vomitevole locandina; il cast, se possibile, sembra peggio della locandina; di certo un must imperdibile per chi, di cinema, non ne capisce un cazzo!

Il balletto del Blolshoi: Ivan il terribile - come per il mese scorso, se volete vedere bella robbba al cinema dovete andare di vecchi film restaurati (mai nessuno sarà grato al cinema ritrovato della cineteca di Bologna quanto me) o opere che sono "fuori" dal cinema.

Cattedrali della cultura 3D - come sopra, con l'aggiunta che forse questa sia l'unica pellicola, fin ora, per cui valga la pena indossare quegli odiosissimi e inutilissimi occhialetti neri.

Avengers: Age of Ultron - un marpazzone di supereroi, che più che salvare la terra sono la causa dei gran problemi che rischiano di distruggerla; unica cosa per cui varrà pagare il biglietto: il culo della Johansson in una tutina di latex a tutto schermo per qualche secondo.

I bambini sanno - di Walter Veltroni (MA SERIAMENTE?!?!?! CIOÉ CE LO ERAVAMO TOLTI DAI COGLIONI IN POLITICA E ORA ROMPE IL CAZZO AL CINEMA?!!?!? ECCHEPPALLE!!!); Comunque, avete presente quei video "virali" dove si chiede ai bambini di parlar di qualcosa, e tutti guardandolo pensiamo: «ma che teneri» oppure «ma certo i bambini son gli occhi della verità, in fondo han ragione»??? ecco, Waltroni ci ha fatto un film.