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giovedì 19 febbraio 2015

INHERENT VICE

di Matteo Marescalco
 
Siamo a Los Angeles, nel periodo a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. 
Larry “Doc” Sportello è un detective privato che viene contattato da tre persone per seguire altrettanti casi che hanno tutti come comune denominatore la figura dell'imprenditore edile Mickey Wolfman. Doc si troverà coinvolto in una serie di investigazioni surreali che lo porteranno a contatto con il più profondo Zeitgeist americano degli anni '60/'70.
Il presupposto ontologico del Cinema di Paul Thomas Anderson è da rintracciare, sia nei film più "mitologici" ed "epici" sia in quelli più intimisti e corali, nella dialettica instaurata tra microcosmo e macrocosmo umano che sfocia verso un'attenta analisi della condizione collettiva della Solitudine. Personaggi alienati e sempre profondamente soli, in preda alle oscure forze del destino di cui sono vittime caratterizzano il fitto reticolato segreto dell'universo Anderson.
Fin dagli esordi, seguendo la restituzione altmaniana della realtà come sovrapposizione caotica di diversi livelli nel loro mescolarsi, Paul Thomas Anderson ha la passione per gli affreschi corali, in cui una decisa zoomata nella vita di ciascuno restituisce una più ampia visione d'insieme. Da There will be blood fino a Magnolia, il regista statunitense si è concentrato sugli Stati Uniti d'America, delineando il loro percorso di sviluppo dagli inizi del Novecento (l'epoca dei cercatori d'argento e dei pionieri del petrolio) fino alla fine del secolo con un'opera incentrata sulle nevrosi ed i fallimenti relazionali degli anni '90. Tutti i personaggi non sono mai entità a se stanti, slegati dal contesto che li ospita; anzi, tutt'altro. In tal senso, una concezione determinista sembra legarli inderogabilmente alla gabbia che li contiene.
Inherent Vice è il settimo film di Anderson ed è tratto dal settimo romanzo di Thomas Pynchon. Protagonista assoluto è Larry “Doc” Sportello, interpretato da Joaquin Phoenix. Doc è il figlio prediletto di un'epoca che ha fatto dello stile di vita hippie, del peace and love e della libera circolazione delle droghe i propri tratti peculiari.
Anderson destruttura e smantella in modo post-moderno l'impianto tradizionale del noir americano. Doc viene coinvolto nella detection dalla sua ex compagna, una ragazza bionda e solare che poco ha in comune con la tipica femme fatale che ha rivestito un ruolo iconico nei noir degli anni '50. Eppure, sembra essere dotata della stessa icasticità fantasmatica ed onirica che ancorava queste figure alle strutture mentali degli uomini che ne divenivano vittime.  
La scrittura di Pynchon satura di digressioni e di derive psichiche trova una perfetta corrispondenza
nella messa in scena applicata da PTA al testo filmico che rende perfettamente l'atmosfera caotica ed allucinogena del periodo. In questo magma di visioni segmentate e di trip pseudo-onirici, ad emergere con estrema chiarezza è il ritratto di un Paese allo sbando, il cui Sogno si è annichilito definitivamente, senza alcuna possibilità di ripresa. La speranza e la forza sovversiva e anti-borghese è sfociata nei paradisi artificiali, le illusioni di un'intera generazione hanno cozzato contro la svolta autoritaria, gli ideali si sono infranti nel sangue della strage efferata compiuta da Charles Manson. Lo sguardo del regista, filtrato da quello del suo protagonista, è decisamente malinconico. Sportello, nel mare magnum di personaggi strafatti ed idiosincratici, appare in un perenne stato di alterazione della coscienza, caratterizzato da un forte senso di nostalgia per la fine di un'epoca e l'inizio del periodo di paranoia di massa con i complotti politici sullo Stato che sorveglia la vita di tutti.
Inherent Vice è una destrutturazione pop piena zeppa di citazioni e di intuizioni visive folgoranti. Lo spettatore è gettato in un vortice di immagini psichedeliche in cui il fumo e la nebbia della notte sembrano corrispondere all'atmosfera di confusione che aleggia nella psiche dei personaggi protagonisti.
Tuttavia, un vizio di forma da non sottovalutare attanaglia l'omonimo film. «Un difetto celato in un bene o in una proprietà, che causa o contribuisce a causare il suo deterioramento, danno o eliminazione. Questi difetti di natura intrinseca rendono l'oggetto di un rischio inaccettabile per un vettore o assicuratore. Esempi di vizi di forma includono combustione spontanea, ruggine, etc.».
Nel tentativo di innestare il carattere prismatico, surreale e stratificato dell'epoca nel tessuto narrativo e visuale del film, Paul Thomas Anderson finisce per costruire una diegesi eccessivamente stratificata, che provoca più di uno sbadiglio nello spettatore comune e che confonde senza lasciar intravedere il centro della propria struttura. Il regista sembra aver perso la bussola o essere rimasto vittima dei fumi allucinogeni dell'epoca. Nella sua indagine sulla deriva di una nazione, Anderson sembra rimanere invischiato in un intreccio narrativo bigger than life in cui il parallelismo forma-narrazione-contenuto getta un velo di incomprensibilità sul secondo elemento.
Dietro il velo di Maya del noir a tinte grottesche, si cela una triste ed amara riflessione su una nazione sull'orlo del fallimento morale. L'unico personaggio che riesce parzialmente a salvarsi è Larry Doc Sportello che richiama alla memoria una famosa Corrispondenza artaudiana: «Quella dispersione, quei vizi di forma, quella continua flessione del pensiero, non bisogna attribuirli a mancanza di esercizio, o di padronanza degli strumenti da me posseduti, o a mancanza di sviluppo intellettuale, ma a uno sprofondamento centrale dell'anima, una specie di erosione essenziale e fugace del pensiero». Doc è l'unico personaggio che riesce ad intuire il percorso degenerativo insito nella condizione umana che lo spinge ad un comportamento leale nei confronti degli altri. Questa qualità sembra distaccarlo dall'immenso baraccone di mostri da circo da cui è circondato.
In definitiva, Inherent Vice è un divertissement nella carriera di Anderson, che firma il triste epilogo di una determinata epoca storica ed il passaggio ad un contesto completamente differente, la cui inquadratura iniziale e finale (un tramonto su una spiaggia californiana) si attestano come manifesto programmatico.

mercoledì 18 febbraio 2015

ROY ANDERSSON-LA TRILOGIA SULL'ESSERE UN ESSERE UMANO

di Egidio Matinata
 
«Quando ero giovane il realismo era l’unica cosa che mi interessava. Tutto il resto era semplicemente strano (o meglio, borghese), ma col tempo sono stato sempre più affascinato dall’Arte Astratta, a partire dal Simbolismo, dall’Espressionismo e dalla Nuova Oggettività. È molto più interessante di una pura rappresentazione naturalistica. L’interpretazione personale dell’espressione astratta è straordinaria. […] È una specie di super-realismo, un obiettivo che ambisco a raggiungere, in cui l’astrazione è condensata, purificata e semplificata. Le scene ne dovrebbero emergere ripulite, come ricordi e sogni».
Roy Andersson, regista svedese sconosciuto ai più, è entrato a gamba tesa nel cinema contemporaneo con la sua “trilogia sull’essere un essere umano”.
Tre film che abbandonano gli schemi narrativi consolidati mostrando i personaggi e le loro azioni in un contesto e in alcune situazioni spesso surreali. Caratterizzati da uno stile rigoroso e molto personale, Canzoni dal secondo piano (2000, premio della giuria a Cannes), You, the Living (2007) e Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014, Leone d’oro a Venezia), possono essere visti come un unico film diviso in tre parti. Non vengono portati avanti dei personaggi e una storia, ma delle situazioni e dei temi che riguardano la vita di ognuno. Infatti, cercare di riassumere in qualche modo le trame diventa difficile, ma soprattutto riduttivo.
La regia di Andersson è costruita per essere uno sguardo sul mondo da lui creato (palesemente fittizio e allo stesso tempo reale); i movimenti della macchina da presa si riducono a brevi carrellate, nella maggior parte dei casi si assiste ad inquadrature fisse che delimitano lo spazio in cui si muovono i personaggi. Sembra che il modo contemporaneo possa essere analizzato, compreso e quindi riprodotto unicamente attraverso la chiave del grottesco; tutte le azioni si basano sulla divisione, ma anche la coincidenza, del comico e del tragico, del banale e dell’essenziale, della bellezza e della meschinità, dell’ironia e della tragedia.
Le potenti immagini, pittoriche e ipnotiche, mettono in mostra un’umanità “imbalsamata” nel suo continuo errare senza una meta precisa; i personaggi si incontrano, si scontrano, entrano in contatto, ma senza arrivare (quasi) mai a creare un rapporto vero. Le parole non hanno la forza necessaria per creare una vera comunicazione, un ponte tra sé e gli altri (e anche i film stessi potrebbero farne a meno; anche se muti non perderebbero minimamente la loro forza espressiva).
In tutte le situazioni un senso di colpa opprimente aleggia sovrano, e nessuno ne è escluso.
Ma quale colpa? Forse la colpa che ha le sue radici nel passato ma che continua a perpetuarsi anche nel presente (le scene agghiaccianti del sacrificio della bambina e di una tribù africana da parte di membri dell’alta società); o forse è la colpa di non riuscire a ribellarsi al quotidiano, alle catene di una società che nullifica l’individuo rendendolo oppresso, schiavo della sua stessa vita. In questo contesto, però, lo sguardo del regista non muove un’accusa contro questo mondo e coloro che lo abitano; è uno sguardo compassionevole e comprensivo, quasi affettuoso, verso creature vulnerabili. Lo sguardo di Roy Andersson è lucido e critico, il suo tocco è delicato e sensibile.
«In generale la trilogia chiede agli spettatori di esaminare se stessi; chiedendo loro «Cosa stiamo facendo? Dove siamo diretti?», intende generare riflessione e contemplazione in merito alla nostra esistenza con una dose abbondante di tragicommedia, passione per la vita, e un rispetto fondamentale per l’esistenza umana. La trilogia mostra un’umanità potenzialmente diretta verso l’apocalisse, ma dice anche che il risultato è nelle nostre mani».

mercoledì 4 febbraio 2015

JUPITER-IL DESTINO DELL'UNIVERSO

di Egidio Matinata

 Un film di Andy e Lana Wachowski. Con Mila Kunis, Channing Tatum, Sean Bean, Eddie Redmayne, Douglas Booth. Fantascienza. USA 2015. Durata: 125 minuti.
 
La prima sensazione che si prova vedendo l’ultimo lavoro di Lana e Andy Wachowski, è quella di un lunghissimo flashback che coinvolge storie e personaggi che tutti già conosciamo. Tornano al cinema dopo aver, in qualche modo, riplasmato l’immaginario collettivo nell’ambito fantascientifico con la trilogia di Matrix, e dopo Cloud Atlas, opera ingiustamente poco apprezzata, la quale aveva al suo interno non pochi spunti di riflessione (il rapporto dell’uomo con la storia, il tempo, l’amore e il cambiamento) e originalità, costruita in modo audace e ambizioso. 
Tutto ciò non è presente nel loro ultimo lavoro. Eppure c’erano buone possibilità di creare qualcosa di nuovo. Il film infatti non è legato a nessuna saga pre-impostata, non è tratto da alcuna opera, non è un remake o un sequel; purtroppo non riesce ad uscire dall’ambito del già visto. 
La storia è quella di una donna comune (Mila Kunis) che scopre di essere destinata a qualcosa di più, addirittura ad essere “sua maestà” del regno intergalattico. E già non partiamo da una base proprio originalissima; aggiungiamoci poi il principe azzurro (Channing Tatum), l’amico di quest’ultimo (Sean Bean) che lo tradisce perché in difficoltà, ma che in fin dei conti resta buono, autore anche del discorso motivazionale che lo spingerà a salvare la bella, un cattivo isterico (Eddie Redmayne) un cattivo belloccio tutto sommato ininfluente (Douglas Booth), e i giochi sono fatti. 
Cloud Atlas resta un grande film anche per la magnificenza visiva che lo caratterizza, mentre la baraonda di effetti speciali di quest’ultimo lavoro (a volte rozzi, tendenti ai videogame), seppur molto avanzati, non hanno la forza necessaria per creare emozioni degne di questo nome.
Jupiter è un palese passo falso nella filmografia dei Wachowski. Non riesce a creare un mondo originale, che possa restare nella memoria collettiva; arranca, cercando una propria strada, appoggiandosi troppo facilmente a modelli standard, e probabilmente sarà dimenticato in fretta.

martedì 3 febbraio 2015

P-RE-censioni - REcensioni PREsuntuose di Pietro* (*Tutto quello che avreste voluto sapere sui film del mese che noi non abbiamo avuto il coraggio di guardare) - Volume UNO

P-RE-CENSIONI - REcensioni PREsuntuose di Pietro  è la nuova rubrica mensile di Diario di un Cinefilo. Confidando nel vostro intelletto e sperando che non verrete a cercarci per punirci della satira politically scorrect da noi prodotta (si, la satira, ultimamente, sta andando parecchio di moda), vi forniamo una serie di recensioni aprioristiche e prevenute su film che non abbiamo ancora visto e che, in effetti, non abbiamo la più pallida intenzione di recuperare. Qua contano solo le nostre idee. Le vostre no. Vi forniamo anche una brevissima guida sulle modalità di utilizzo delle vostre opinioni. Al prossimo mese! (Per questo primo volume abbiamo preso in considerazione sia i film di Gennaio che di Febbraio, dalla prossima edizione avremo solo quelle del mese appena iniziato)





ITALO - La peggio fiscion italiana diventa cinema dell'emozione sfruttando animali e bambini; straconsigliato per chi vuole uscire di casa e ritrovare la stessa merda che può vedere comodamente sul divano di casa pagando il canone. 

FURY - Sembra Bastardi senza gloria, però senza Tarantino e Waltz; il regista è quello di Fast&furious, quindi c'è da aspettarsi inseguimenti tra carri armati al cardiopalma. 

ITALIANO MEDIO - Maccio che sfida il sistema, però prodotto dalla Medusa...


«In Bradley Cooper c'è il padre
sportivo, il fratellone buono, il cugino
che ti ha difeso nelle risse, l'amico che
ti ripara il motorino, il fidanzato che
fa felice la mamma, gli abbracci del
Mulino Bianco. Forse perdi un po'
in orgasmo ma ti prepara una
colazione da Dio e ti spiccia casa».
(Andrea Minuz) 
BIRDMAN - Tutti a menarla su quanto sia bello e fico (ovviamente solo i film con supereroi o ex-supereroi interessano tanto i masturbacomics delle ultime generazioni, ma vabbè); tanti pianisequenza, attori senza copione ma solo con un canovaccio: CAPOLAVORO!


AMERICAN SNIPER - Uno contro mille ce la fa. W i cecchini. W la democrazia. W Mamma Ammeriga!

TAKEN 3 - Liam Neeson n'tessopporto più, Forest si sta prostituendo ancor di più che negli anni '90, il regista ci ha regalato perle come Transporter 3 e Taken, quindi c'è da aspettarsi il meglio del peggio della merda.


NOI E LA GIULIA - Il cinema italiano finalmente si muove: attori provenienti dal Grande fratello o dal piccolo schermo, alla regia uno che non c'è mai stato, e poi buttiamogli pure un po' di mafia/camorra/'ndrangheta, che fa fico combatterla e i gggiovani che possono fare da volano per l'economia del paese!


I CAVALIERI DELLO ZODIACO - LA LEGGENDA DEL GRANDE TEMPIO - Dopo 15 anni, qualche genio del marketing pensa bene di riesumare I cavalieri dello zodiaco, però rifacendoli in 3D e facendoli doppiare dal cast originale, che ora potrebbe doppiare i cavalieri del gerialtriaco. 


NON SPOSATE LE MIE FIGLIE! - I francesi, con la loro solita ironia ammoscia palle, fanno questo film e colgono l'occasione per farlo uscire a marzo di quest'anno (in italia a Febbraio), un padre che sposa tre figlie con tre stranieri ed è razzista...indovina chi non andrà al cinema?



Ben Affleck prima di
Still Alice.
Ben Affleck dopo
Still Alice.
STILL ALICE - una tizia malata di Alzheimer che
poverina....zzZZzZZzzzz


NON C'E' 2 SENZA TE - Dal regista che non ha fatto un cazzo di altro, e attori del calibro di FABIO TROIANO, DINO ABBRESCIA, TOSCA D'ACQUINO, SAMUEL TROIANO (grandi doti di famiglia o nonnismo?!) e CRISTINA SERAFINI il nuovo film con BELEN, una zoccola che fa innamorare un gay, c'è da aspettarsi una trama innovativa, un intreccio fantasioso, l'assenza totale di cliché e una recitazione da Oscar.


Ultimo ma non meno importante un variegato carrello di film di questi due mesi

The imitation game - Big eyes - La teoria del tutto - Mortdecai - Biagio - L'Oriana - Turner - Unbroken 
avete veramente e sonoramente rotto il cazzo con i biopic

lunedì 2 febbraio 2015

THE ICEMAN

di Egidio Matinata
 
Un film di Ariel Vromen. Con Michael Shannon, Winona Ryder, Ray Liotta, Chris Evans, James Franco. Drammatico, Thriller. USA 2013. 106 minuti.

Nel 1992 HBO mandò in onda lo sconvolgente documentario The Iceman: Confessions of a Mafia Hitman, basato su una serie di interviste con Richard Kuklinski, un famoso killer, in carcere nel New Jersey per scontare un ergastolo per l’uccisione di cento uomini.
Da questo inquietante documentario nasce l’idea per il film di Ariel Vromen, il quale rimane profondamente colpito dalla storia e soprattutto da questo personaggio. «La sensazione più strana era che lui mi piaceva», affermerà il regista.
Ricostruire la doppia vita di quest’uomo, da un lato killer spietato e dall’altro marito e padre amorevole, era la sfida e allo stesso tempo la base per la costruzione del film. Ma nonostante il forte coinvolgimento “emotivo” da parte dell’israeliano Vromen nei confronti di questa storia, la pellicola risulta piatta dall’inizio alla fine. La tensione è presente, ma manca la profondità necessaria a rendere il racconto in un certo senso “elevato”. Scavare in profondità nella mente e nella psiche di un personaggio non significa cercare di capirlo (e spiegarlo) attraverso due flashback che mostrano un’infanzia e un passato di violenze. L’interpretazione di Michael Shannon, che resta comunque ottima, risente di questa costruzione troppo elementare in fase di scrittura; riesce a portare il peso del film sulle sue spalle, ma a volte la componente folle e selvaggia del personaggio sfocia incontrollabile, tanto da far venir meno il tentativo di mostrare le due facce della medaglia di quest’uomo. I comprimari di Shannon certamente non aiutano, dall’insipida Winona Ryder a Ray Liotta, sempre più impantanato nei ruoli da gangster mafioso.
The Iceman è uscito nel 2015, ma è vecchio di almeno trent’anni. Avrebbe avuto bisogno di un approccio più innovativo e meno grossolano, di percorrere una strada propria e non tutte quelle già battute. Il prodotto che abbiamo di fronte è banale e poco incisivo.