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sabato 29 novembre 2014

MAGIC IN THE MOONLIGHT

di Matteo Marescalco
 
Anni '20. Sud della Francia. L'illusionista cinese Wei Ling Soo è uno dei più celebrati illusionisti della sua epoca, ma pochi sanno che sotto il suo costume si cela l'identità di Stanley Crawford (interpretato da Colin Firth), uno scorbutico ed arrogante inglese con un'elevata opinione di se stesso ed un'avversione nei confronti dei finti medium che dichiarano di essere in grado di realizzare magie. Convinto da un suo vecchio amico, accetta la proposta di smascherare la chiaroveggente Sophie Baker (interpretata da Emma Stone), impegnata a circuire una ricca famiglia in vacanza nella riviera francese. Crawford si presenta sotto le mentite spoglie di un uomo d'affari che accusa Sophie di essere una mistificatrice da quattro soldi. Ma, con grande sorpresa, la ragazza si esibisce in una serie di numeri di magia e di lettura della mente che lasciano sbigottito il gentleman inglese e che sfuggono a qualsiasi comprensione razionale. Crawford comincia a pensare che i poteri di Sophie siano veri. Se così fosse, Stanley si renderebbe conto che tutto sarebbe possibile e le sue solide convinzioni fisiche verrebbero a crollare.
Con l'incredibile media di 48 film realizzati in altrettanti anni, Woody Allen si conferma uno dei registi più prolifici del panorama cinematografico mondiale. Dopo aver ambientato il suo penultimo film, Blue Jasmine, nella sua cara New York che ha dato i natali, tra gli altri, a Manhattan e ad Io e Annie, Allen torna in Francia con una commedia romantica dal sapore agrodolce, incentrata sul mondo della magia. La cornice è, quindi, simile a quella di Midnight in Paris: la società della belle epoque pronta a godersi la vita dedicandosi al pettegolezzo e a questioni di poco conto.
Il personaggio protagonista è quanto di più alleniano possa esistere, un razionalista che cita Hobbes e Nietzsche e che pensa che la vita sia un'infinita sequela di eventi senza senso. Per lui, non c'è assolutamente spazio per la sorpresa. Centro focale del lungometraggio è il vecchio conflitto tra ragione e sentimento, realtà ed illusione.
Tra lunghe carrellate e piani sequenza fissi, dialoghi memorabili ed autoreferenziali e scambi al vetriolo, Woody Allen non perde occasione per autocitarsi e portare nuovamente in scena un personaggio che condensi tutte le sue idee pessimiste sulla vita. Questa volta, però, sembra esserci spazio per un lieto fine. 
Vale la pena abbandonarsi all'illusione dell'amore, consapevoli, tuttavia, che essa rappresenti soltanto un'illusione? Sembra essere questo il centro focale del film.
Alla direzione della fotografia torna il fedele Darius Khondji che illumina tiepidamente gli scenari della riviera francese ad alto tasso di romanticismo.
Magic in the Moonlight risulta essere vittima, tuttavia, della verbosa costruzione narrativa del suo regista e sceneggiatore: il film, infatti, alla lunga finisce per annoiare lo spettatore che si trova davanti, per l'ennesima volta, la solita sequela di idiosincrasie alleniane, qui trasformate in luoghi comuni. I personaggi stessi appaiono monodimensionali nei loro strambi cambi di comportamento senza un senso apparente.
L'impressione è quella di trovarsi davanti ad un autore narciso, vittima della propria cannibalistica magniloquenza creativa, la cui ultima opera svanisce come una bolla di sapone o ancor meglio, per restare in tema, come la conseguenza di un'illusione mal portata a termine.

venerdì 28 novembre 2014

SCEMO E PIU' SCEMO 2

di Matteo Marescalco
 
Jim Carrey e Jeff Daniels tornano a vestire i panni dei leggendari Loyd Christmas e Harry Dunne nel sequel del grande successo cinematografico che ha rappresentato al meglio e trasformato in cult la nuova commedia americana favorendone anche la svolta verso l'orizzonte demenziale: Scemo e più scemo 2.
I registi del film, i fratelli Peter e Bobby Farrelly (autori, tra gli altri, di Tutti pazzi per Mary), presentano le nuove avventure di Lloyd e Harry, che stavolta sono impegnati in un viaggio alla ricerca di una figlia che Harry non sapeva di avere.
Venti anni dopo aver lasciato i due protagonisti, tutto è cambiato. L'unica costante è la loro idiozia. Quando Harry, che ha bisogno di un trapianto di rene, scuote Lloyd dallo stato di totale apatia in cui è precipitato dopo essere stato lasciato da Mary, si mette in viaggio insieme a lui, per riuscire a trovare la figlia che, forse, potrebbe aiutarlo. Partendo dalla clinica in cui vivono, e attraversando il Paese a bordo di un carro funebre, i due arriveranno ad un summit in cui partecipano alcune tra le persone più intelligenti al mondo. Fino a quando non arrivano loro a sconvolgere la situazione.
Il primo episodio diretto dai fratelli Farrelly nel 1994 rappresenta un caso rilevante nella storia del cinema: con più di 300 milioni di dollari di introiti a livello mondiale, è diventato un trionfo indiscusso e viene ancora considerato un cult. L'effetto domino ha poi contribuito ad alimentare e a consolidare ulteriormente la fama del film. Ovviamente, quindi, le aspettative dei fan nei confronti di questo secondo episodio erano veramente elevate.
Se, tuttavia, in Scemo più scemo e in Tutti pazzi per Mary, le vette di volgarità erano sostenute alla base da un'ironia caustica e corrosiva che non si preoccupava di scagliarsi contro tutto e tutti, in Scemo e più scemo 2 non si può sostenere la stessa cosa. L'intero lungometraggio è retto da una serie di gag slapstick e screwball di dubbio gusto che si spengono con la fine delle singole sequenze. A dominare è la struttura dello sketch che prevale sulla costruzione di una narrazione attenta al suo sviluppo omogeneo.
Fa male vedere un attore del calibro di Jim Carrey, che ha dimostrato tutto il suo immane talento recitativo anche in alcuni film drammatici (Man on the moon, The Majestic, Eternal sunshine of the spotless mind, The Truman show), coinvolto in un progetto così “svogliato” e privo di particolari ragioni di interesse. Non basta tutta la sua strabordante carica ironica fisica per tenere alto il livello del film. 
L'ultimo lungometraggio dei Farrelly è piatto e poco riuscito, chiuso su un'ironia volgare ed eccessivamente demenziale che strappa soltanto sporadiche risate.
La sensazione è quella di aver assistito ad un triste spettacolo realizzato da attori e registi che hanno fatto grande il genere comico ma che, ora, appaiono parzialmente mummificati.

UN AMICO MOLTO SPECIALE

di Matteo Marescalco
 
E' la vigilia di Natale e Antoine, un bambino di sei anni, ha in mente una sola idea: incontrare Babbo Natale e fare un giro in slitta con lui tra le stelle. Così, quando Babbo Natale gli cade come per magia sul balcone, Antoine è troppo stupito per capire che sotto il classico costume rosso e bianco si nascone in realtà un ladro intento a svaligiare gli appartamenti dei quartieri alti. Nonostante tutti gli sforzi dell'improvvisato Babbo Natale per sbarazzarsi di Antoine, i due finiranno per formare un'improbabile coppia in giro per i tetti di Parigi, ognuno intento a realizzare il proprio sogno in una notte magica dove tutto può accadere.
Il terzo film del regista francese Alexandre Coffre è la tipica favola natalizia dai buoni sentimenti. La struttura narrativa è tradizionale e pone al centro del racconto le figure di due anime solitarie e sensibili che si incontrano e non possono fare altro che migliorare vicendevolmente. Il centro focale del lungometraggio è rappresentato dal misunderstanding del protagonista più piccolo: Antoine, infatti, scambia il personaggio interpretato dall'attore francese Tahar Rahim per il vero Babbo Natale, consentendo, quindi, allo spettatore di accostarsi alla vicenda dal suo punto di vista distorto.
Secondo quanto detto dal regista: “Un amico molto speciale è una commedia che gioca con la simbologia del Natale. Il ladro, manipolando Antoine, gioca con i codici del Natale, portando il bambino in un mondo incantato. Alla fine, l'adulto riparerà il suo passato e il bambino delineerà il suo avvenire”.
Come per Hugo di Martin Scorsese, anche il target di riferimento di Un amico molto speciale è incerto: il film potrebbe risultare, infatti, indigesto e noioso ai bambini e buonista ed eccessivamente lacrimevole agli adulti.
In genere, la sceneggiatura manifesta un'evidente povertà di trovate ironiche, concentrata com'è su un percorso diegetico incanalato sulla “retta via”.
Un amico molto speciale è stato prodotto dalla stessa coppia di produttori di Quasi amici, film che, pochi anni fa, ha fatto incetta di denaro ai botteghini francesi.
La struttura, più o meno è la stessa, ed entrambi i lungometraggi sono caratterizzati dalla presenza della coppia, in una specie di buddy movie europeo.
In definitiva, Un amico molto speciale non aggiunge nulla di nuovo al filone dei film natalizi e potrebbe rappresentare, solo in assenza di altro, la giusta scelta per un pomeriggio all'insegna dell'intrattenimento disimpegnato.

TRUE DETECTIVE

di Egidio Matinata
 
Scritto da Nic Pizzolatto, diretta da Cary Joji Fukunaga. Con Matthew McConaughey, Woody Harrelson, Michelle Monaghan, Michael Potts, Tory Kittles, Kevin Dunn, Alexandra Daddario. Drammatico, poliziesco. Durata: otto episodi da 60 minuti.

Negli ultimi anni il livello qualitativo delle serie tv è salito in maniera esponenziale, sanando il divario che le separava dal cinema. Il termine “artistico”, riferito ad un prodotto televisivo, era cosa rara (nonostante vi fossero illustri precursori come Twin Peaks e Ai confini della realtà, per citarne due). Diversi sono i motivi di questo cambiamento. Alla base c’è sicuramente il fatto che il format seriale facilita e allo stesso tempo espande le modalità di narrazione in un modo che il cinema non può fare; e permette di approfondire in modo più accurato la psicologia dei personaggi e il mondo che essi abitano. L’unione, poi, di un numero sempre crescente di spettatori, alla presenza di volti noti dell’industria cinematografica, sia interpreti che autori, ne ha sancito definitivamente il successo sul versante commerciale
True Detective rappresenta una delle vette più alte, degli ultimi anni e non solo, nell’ambito delle serie televisive. Scritta interamente da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Joji Fukunaga, è andata in onda nel 2014 sul canale HBO, riscuotendo ampi consensi sia dalla critica che dal pubblico. Le vite dei detective Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) si intrecciano inesorabilmente nella lunga caccia a un serial killer in Louisiana, in un arco temporale di diciassette anni, dal 1995 al 2012, anno in cui il caso viene riaperto.
La serie racconta apparentemente la storia più vecchia del mondo: il Bene che combatte contro il Male. Ma lo fa in un modo diverso. Più reale, più cupo, più pessimista. Analizzando l’essere umano in tutte le sue sfaccettature e nel rapporto che ha col mondo in cui vive, ne porta a galla tutti gli aspetti che lo caratterizzano, i quali finiscono per risultare, nella maggior parte, negativi.                                          
L’uomo è l’animale più crudele” recita una delle frasi promozionali della serie. Ed è proprio attraverso questa lente che l’essere umano viene messo a fuoco: come animale spinto da pulsioni primarie, come specie che si è evoluta eccessivamente, arrivando ad una consapevolezza maggiore di sé. Una consapevolezza, però, illusoria errata. 
Rust, cinico e pessimista, sembra essere l’unico personaggio ad avere accesso a questa verità e attraverso i suoi (fantastici) sproloqui filosofici, i grandi temi che caratterizzano l’esistenza di tutti vengono messi sotto esame e arrivano allo spettatore sotto una luce nuova. Una luce più nera che mai. L’evoluzione, la coscienza, la religione, l’amore, la vita e la morte diventano concetti effimeri. E  cedendo alla falsa speranza (o paura) creata da essi, si cede alla consapevolezza illusoria che caratterizza l’umanità. 
Marty fa parte sicuramente di questa categoria di persone. Personaggio meno complesso, rimane costante in tutto l’arco narrativo nella sua falsità di facciata. Padre di famiglia, marito fedele e bravo investigatore. Apparentemente. L’ipocrisia che lo caratterizza sarà alla base dello sfaldamento della sua famiglia e, in parte, del suo rapporto professionale con Rust.
Questi due uomini, così diversi tra loro, si ritrovano a combattere insieme non solo i loro demoni interiori, ma anche i demoni che si trovano appena fuori dalla nostra porta. Simboli di una malvagità pura, primordiale e, cosa ancora più spaventosa, umana. L’ambiente inquietante in cui si muovono i personaggi sembra permeato da un alone di malvagità costante: gli alberi, le case, le chiese abbandonate. Nonostante la serie sia avvolta da un alone surreale, l’orrore e la paura che si provano durante la visione risalgono a un’origine terrena, che risulta terrificante perché inspiegabile. Le due linee diegetiche, quella personale e professionale, vanno di pari passo durante le puntate, intrecciandosi vicendevolmente. Così come la stessa struttura della serie, che raggiunge la sua perfezione e la sua compattezza nell’andare avanti e indietro nel tempo, senza mai lasciare lo spettatore nella frammentarietà, ma portandolo, attraverso i flashback, ad una sensazione di omogeneità.
True Detective è un capolavoro sotto tutti i punti di vista. Stilisticamente è difficile trovargli degli eguali, anche in ambito cinematografico, sia per quanto riguarda la sceneggiatura che per la qualità prettamente tecnica. Molte scene sono già diventate cult, come il piano sequenza della quarta puntata. 
Gli attori riescono a dare vita a due personaggi che sono già entrati nell’immaginario collettivo. Ogni coppia di poliziotti che vedremo al cinema o in televisione nei prossimi anni dovrà reggere il confronto con loro.
Il finale, da molti accusato di scarsa coerenza con il tono generale della serie, può risultare ottimista solo ad un primo livello di lettura. La scena che si svolge al di fuori dell’ospedale non deve essere interpretata come un dantesco “uscimmo a riveder le stelle”. In quel momento i due personaggi, guardando verso il cielo, non vedono altro che un riflesso di ciò che succede sulla Terra. Il microcosmo e il macrocosmo si specchiano l’uno nell’altro e si riconoscono come simili. Una volta c’era solo l’oscurità. Ora la luce sta avanzando, ma il suo prevalere è ancora lontano.

giovedì 27 novembre 2014

STORIE PAZZESCHE

di Matteo Marescalco
 
Latin-American directors do it better!
«Le ineguaglianze, l'ingiustizia e le pressioni del mondo in cui viviamo generano stress e depressione in molte persone. Alcune, però, esplodono. Questo film parla di loro.
Vulnerabili di fronte a una realtà che cambia continuamente e che, improvvisamente, può diventare imprevedibile, i protagonisti di Storie pazzesche oltrepassano il sottile limen tra civiltà e barbarie. Il tradimento di un marito, il ritorno ad un passato sepolto e la violenza che si insinua negli incontri quotidiani, portano alla follia i personaggi del film, che si abbandonano all'innegabile piacere della perdita del controllo».
Un incipit così scoppiettante e folle non si vedeva al cinema dall'ultimo film di Alex de la Iglesia, Las Brujas de Zugarramurdi. Storie pazzesche si apre con una macro sequenza ambientata all'interno di un volo di linea. Tutti i passeggeri sono inquietantemente accomunati dall'amicizia con un tale Gabriel Pasternak. L'aereo ospita, tra gli altri, la sua ex ragazza, il suo migliore amico, il suo psichiatra, la sua maestra ai tempi delle scuole elementari e il docente universitario che ha bocciato la sua tesi in drammaturgia musicale. La risoluzione della vicenda è davvero esilarante.
Il riferimento a Gli amanti passeggeri di Pedro Almodovar (qui nel ruolo di produttore) è palese.
Partono i titoli di testa del film in cui i nomi degli interpreti compaiono su immagini di fiere selvagge. A tal proposito, il regista ha dichiarato: «Questa scelta non è assolutamente casuale. Spesso penso alla società capitalista occidentale come ad una specie di gabbia trasparente che ci rende insensibili e distorce i nostri rapporti con gli altri. Questo film racconta le storie di alcuni individui che vivono dentro questa gabbia senza esserne consapevoli. E quando arrivano al punto di rottura, anzichè reprimersi o deprimersi come facciamo quasi tutti, partono in quarta senza riuscire più a fermarsi».
Prodotto da Pedro Almodovar, Storie pazzesche è costruito sulla base di sei episodi grotteschi (caratterizzati da unità tematica ma non narrativa) che sfociano nel sangue e nella violenza: da una lite furiosa tra due automobilisti dai nervi facili che si conclude in modo tragicomico, a un ingegnere che si occupa di detonazioni e alle prese con la rimozione forzata della sua automobile, fino a una famiglia benestante che tenta di coprire il reato compiuto dal figlio attribuendo la colpa al giardiniere (i colpevoli son sempre i maggiordomi o i giardinieri!).
Il lungometraggio diretto da Damian Szifron porta in scena una serie di sketch che possono apparire come mere barzellette ma che, dietro la superficie del divertissment più scatenato, nascondono un'interessante riflessione sulla difficile situazione attuale dell'Argentina: corruzione, cinismo e caos burocratico sono gli ingredienti di questa piacevole pellicola, che ha nel surreale incipit il maggior punto di forza.
Con il procedere del lungometraggio, aumenta la durata dei singoli episodi che, dal terzo in poi, perdono l'immediatezza caratterizzante i primi due.
La denuncia del film è penalizzata dalla graduale prolissità delle storie raccontate e dalla perdita di mordente e di efficacia che trasformano in un gattino un lungometraggio che sarebbe potuto essere una feroce tigre.

martedì 25 novembre 2014

FRANK or a «lonely standing taft»

di Macha Martini
 
«Ehi... guarda qui... Questo piccolo ciuffo del tappeto. Mi chiedo quanti anni abbia negli anni dei tappeti. È primavera? È il primo che si risveglia o... è vecchio, ma ancora abbastanza forte da tenersi ciò che l'inverno vuole portare via

Il rumore del mare, i suoni di una melodia ancora embrionale e Jon, un ragazzo che vuole diventare musicista. Così inizia l'avventura surreale e tragicomica di un giovane tastierista, solo e troppo immerso nel mondo irreale di Twitter. Con Frank, il regista Lenny Abrahamson e lo sceneggiatore Jon Ronson si pongono l'obiettivo di mostrare al pubblico la perdita del proprio Io all'interno di una società troppo conformista e legata ai social network.
I tratti fondamentali del sé sono tracciati tramite tre dei membri della Soronprfbs (una band di malati mentali): Clara, Don e soprattutto Frank, il leader dell’incompreso gruppo musicale. 
Clara mostra il lato dell’uomo moderno restio all’omologazione. Evidenzia quella sfaccettatura che ha paura di perdere il proprio io in mezzo all’infinità di identità irreali che popolano i social network e che, alla fine, rappresentano solo dei numeri, dei “like”, con i quali la società crede di poter giudicare la vita di una persona. 
Don, invece, rappresenta in pieno la crisi dell’autocoscienza del sé. Infatti, il suo personaggio si vede “sbagliato”, non riuscendo a cogliere il suo potenziale. Don è come una quercia in mezzo a un campo di margherite, che invece di sentirsi superiore, desidera solo un mezzo dietro al quale nascondere il proprio sé. Perciò idolatra Frank, l’unico uomo cui è permesso, grazie a un certificato medico, di velare la propria faccia dietro un'enorme maschera di cartapesta. 
Infine Frank (figura ispirata al musicista Frank Sidebottom) disegna l’io anticonformista in tutte le sue sfaccettature. L’incompreso performer, interpretato alla perfezione da Fassbender, è drasticamente terrorizzato dai giudizi altrui che, con l'esplosione dei social network, hanno assunto sempre maggiore rilevanza. Frank è la personificazione dell‘outcast: l’escluso da una società che non

 

ammette persone troppo vere e dunque poco superficiali per la moda del momento. Questa caratteristica del sé e della sua perdita si manifesta pienamente il giorno del concerto. Frank, in preda al panico, trucca la sua maschera, ponendo davanti a sé un ulteriore velo che lo possa nascondere dalla folla in trepidante attesa di cliccare un pollice all’in su o all’in giù.
Jon entra a far parte di tutto questo in modo totalmente casuale. Anche la sua figura è fondamentale nel delineamento dell’uomo moderno all’interno della società. Inizialmente come Frank e tutti i componenti della band, anche lui è un outsider.
Il protagonista non riesce a esprimere a pieno il suo Io (la sua arte) e trova in Twitter una fonte di sfogo. Il social network rappresenta l’unico, sebbene illusorio, modo che ha per comunicare e raccontarsi. Ogni parte del film è scandita dai tweet che Jon immette nel mondo virtuale. L’unico tratto di vita che il protagonista ammette con rammarico di non aver trasmesso ai suoi follower, tra cui siamo compresi noi spettatori, è soggetto ad un'ellissi narrativa. Immerso sempre di più nei social network, il giovane artista cerca in tutti i modi di acquistare la sua visibilità in un mondo in cui solo essa conta. Nel farlo non si cura del dolore che l’esposizione così eccessiva può portare ai membri della band e quindi allo stesso Io. Anzi, nel cercare di acquisire questa ambita “notorietà”, la sua mente nega totalmente i segni evidenti della crisi dell’Io anticonformista, che si manifestano in un Frank che si nasconde sotto i tavoli e che girovaga nervoso e inosservato in mezzo ai party.
Se Fincher con The Social Network ha descritto la nascita del più grande colosso di comunicazione virtuale, il vincitore del British Indipendent Awards per miglior regia, invece, descrive come il loro avvento e il loro radicarsi all’interno della società abbiano messo in crisi l’autocoscienza dell’uomo moderno. 
Nonostante durante tutto il film, il regista e lo sceneggiatore neghino l'esistenza di una soluzione a questa perdita progressiva del sé, nel finale, però, il punto di vista cambia. Infatti, Frank, come una moderna opera d’arte, non ha una fine oggettiva. La conclusione lascia spazio all’amarezza surreale del pubblico.

Sicuramente Frank non è il lungometraggio dell’anno e la performance di Michael Fassbender non è la più ferina della sua carriera, ma certamente, è un film che riesce a saltare l’asticella dell’originalità, senza mai cadere nella banalità o nel ricattatorio. Tutte le scene drammatiche sono rappresentate in modo comico e suscitano il riso degli spettatori, sebbene generare tali sensazioni non sia l'obiettivo peculiare del film. Lo stesso protagonista, nel sentirsi dire quanto siano comiche le scene più intime della band, chiarisce che non sono scene ilari. Eppure, il protagonista, come lo stesso regista, non può e non sa rispondere a una domanda fondamentale: «Davvero? Io pensavo fosse vostra intenzione essere comici».

domenica 23 novembre 2014

I PINGUINI DI MADAGASCAR

di Matteo Marescalco
 
La consapevolezza che anche la Pixar, l'indiscutibile prima della classe nel mondo dell'animazione, si sia dedicata alla realizzazione di uno spin-off (Monsters University) redime parzialmente la Dreamworks SKG della premiata Spielberg, Katzenberg e Geffen. In un mondo cinematografico ipersemiotizzato in cui le idee latitano e gli sceneggiatori sembrano essere affetti da una incontrovertibile crisi creativa, non stupisce affatto che alla Dreamworks abbiano deciso di attingere ad un film girato nel 2005 e di approfondire le avventure di alcuni dei suoi personaggi secondari più irriverenti e magnetici. Il film in questione è Madagascar e i personaggi sono i pinguini Skipper, Kowalski, Rico e Soldato.
I Pinguini di Madagascar, diretto da Eric Darnell e Simon J. Smith, conferma la prerogativa principale degli studi Dreamworks: divertire puntando principalmente sulle gag slapstick e sull'ironia dilagante che, a tratti, raggiunge la demenzialità. Dimenticate le atmosfere mature e le riflessioni filosofiche della Pixar.
Protagonisti del lungometraggio animato sono quattro pinguini che, in preda ad uno sfrenato desiderio di avventura, decidono di allontanarsi dalla propria famiglia e dalla terra natia, dando vita ad una unità d'elite di 007. Ad un estremo si colloca Skipper, l'Odisseo del gruppo, all'opposto Soldato, il pinguino più tenero e piccolo della compagine a cui è impedito di partecipare attivamente alle missioni. 
Il racconto si basa su una serie di stereotipi facilmente individuabili: Soldato non accetta il suo ruolo e si vuole mettere in gioco per dimostrare di essere parte attiva del gruppo. I quattro pinguini si troveranno ad affrontare il temibile Dottor Octavius Brine (doppiato in originale da John Malkovich) sotto le cui spoglie, in realtà, si nasconde l'invidioso polpo Dave, che minaccia di trasformare tutti i pinguini della terra in esseri mostruosi. I nostri eroi improvvisatori saranno affiancati, nella loro missione, dalla task force segreta Vento del Nord che protegge gli animali in difficoltà in tutto il mondo, composta da un orso polare, una civetta delle nevi, una foca bianca e guidata da un husky pieno di sé (doppiato dall'inglese Benedict Cumberbatch). Tra inseguimenti a perdifiato e piani stabiliti nei minimi dettagli, avventure a Venezia, Shanghai e nel deserto e indigestioni di cibo, la nostra allegra unità conduce la storia verso un prevedibile lieto fine.
I Pinguini di Madagascar è un delirio psichedelico pensato per un pubblico giovane. Ogni pretesa di realismo è completamente negata, l'esperienza concreta non è un parametro per la costruzione di senso e l'effetto comico è sempre legato al dinamismo che caratterizza le azioni. Un esempio su tutti: i pinguini bucano alcuni aerei di linea ma gli sceneggiatori non si preoccupano di farci sapere che fine faranno i gentili viaggiatori che appaiono assolutamente tranquilli.
Centro focale del film è, sostanzialmente, il vetusto conflitto tra legge e desiderio, tra regola e pulsioni individuali e, in questo, il film finisce per somigliare a Monsters University. I quattro pinguini desiderano più di ogni altra cosa abbandonare quella che è, ironicamente, la loro occupazione principale: essere ripresi dagli autori di documentari (a tal proposito, una chicca: il doppiatore del principale documentarista che appare nei primi minuti del film è nientepopodimeno che Werner Herzog, che di documentari ne sa decisamente qualcosa). La presa in giro di carattere metacinematografica è evidente.
In definitiva, l'ultimo prodotto della Dreamworks Animation è un puro divertissment per intrattenere i più piccoli, indubbiamente frutto di strategie commerciali ma che, comunque, non lesina momenti ad elevato tasso di interesse.

mercoledì 19 novembre 2014

REMEMBERING THE ARTIST ROBERT DE NIRO, SR.

di Matteo Marescalco
 
Si è respirata aria di grande cinema, lunedì pomeriggio, al MAXXI di Roma.
Il Museo d'Arte del XXI secolo ha ospitato, in anteprima europea, il documentario Remembering the artist Robert De Niro, Sr. diretto da Perri Peltz e Geeta Gandbhir ed incentrato sulla figura del pittore americano d'avanguardia.
L'atmosfera è tesa, il pubblico è in fibrillazione. Mario Sesti, moderatore dell'evento, annuncia l'ingresso in sala di Robert De Niro che ha personalmente scelto Roma come sede dell'anteprima. Trent' anni di grande cinema americano condensati in un solo corpo che sente il peso della vecchiaia ma che non ha ancora minimamente perso il fascino della sua été brulant.
Il mediometraggio è dedicato alla rapida parabola dell'artista che, dopo un exploit iniziale, venne poi trascurato dalla critica d'arte e non ottenne il riconoscimento che avrebbe meritato.
Il 20 Ottobre 1942 segna una data fondamentale per il mondo dell'arte del '900. A New York, infatti, viene inaugurata la Galleria Art of This Century, curata da Peggy Guggenheim. La Galleria, fino al 1947 (anno di chiusura), fu il principale luogo d'esposizione dei maggiori artisti contemporanei europei e di alcuni autori americani emergenti, oltre ad aver alimentato i germi per la nascita della New York School.
Art of This Century era caratterizzata da quattro spazi d'esposizione: the Abstract Gallery, the Surrealist Gallery, the Kinetic Gallery e Daylight Gallery. I primi tre esponevano la collezione privata permanente che Peggy Guggenheim, con la collaborazione di Marcel Duchamp, aveva selezionato durante le sue visite alle principali mostre d'Arte europee. Tra gli artisti coinvolti, Georges Braque, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì, Max Ernst, Wassily Kandinsky, Fernand Leger, Joan Miro, Pablo Picasso e Yves Tanguy tra gli europei, Hans Hofmann, Willem de Kooning, Jackson Pollock, Mark Rothko e Robert De Niro, Sr. tra gli americani.  
Lirico e commovente, arricchito da filmati familiari e da varie testimonianze, il documentario è stato prodotto dalla HBO e andrà in onda il 28 Dicembre su Sky Arte HD.
Tra ricordi e rimpianti, sensi di colpa e tenerezza, Remembering the artist Robert De Niro, Sr. fornisce un ritratto intimista non solo dell'artista, ma soprattutto dell'uomo che si nascondeva dietro tale maschera. I registi focalizzano la loro attenzione sul rapporto padre-figlio e sulla delusione di De Niro, Sr. per non aver ottenuto in vita quel successo che pensava di meritare. Personalità
idiosincratica e contraddittoria, l'artista newyorkese, dopo un primo periodo astrattista, ha orientato la propria arte pittorica verso la tradizione figurativa francese, scostandosi dalle nascenti Pop e Minimal Art. De Niro, Jr. ripercorre la carriera del padre a partire da alcuni brani estrapolati dal suo diario personale. Ne emerge il ritratto di un uomo tormentato e deluso da se stesso e dagli artisti contemporanei, in difficoltà a causa dell'omosessualità mai dichiarata che viveva in modo conflittuale e profondamente grato a Dio per aver avuto un figlio così buono.
A proposito del documentario, De Niro ha affermato: "Ho pensato che fare un film su mio padre fosse necessario per permettere ai miei figli e ai miei nipoti di ricevere la sua eredità artistica, il fatto poi che il film sia proiettato in modo così ampio è fantastico ma io ho deciso di realizzarlo, come ho deciso di mantenere il suo studio, perché volevo che i suoi nipoti e bisnipoti fossero consapevoli di cosa il loro nonno fosse stato in grado di fare. È qualcosa che sento, che devo a mio padre e a mia madre. Credo che sia importante per un figlio apprezzare ciò che fanno i suoi genitori. Io mi sono interessato alla sua arte solo da un certo punto in poi. Ma personalmente non ho mai avuto un particolare interesse per la pittura. La storia di mio padre dimostra che si può essere bravi e talentuosi ma che questo non necessariamente porta ad un riconoscimento".
Il Cinema è la più imponente messa in scena del XX secolo ma ciò che sembra caratterizzare maggiormente questo documentario è l'immediatezza e il realismo estremo dei sentimenti dell'attore americano coinvolto in questo progetto. A spiccare sono i sensi di colpa, i rimpianti, non ammessi pienamente da De Niro, Jr. e le difficoltà nel relazionarsi con un padre artista e costantemente vittima della depressione: "Un vero e proprio senso di colpa non l'ho avuto. Certo, lui in vita era consapevole del mio successo, sapeva che ero stato molto fortunato ad avere quella carriera ma era anche molto orgoglioso di me. Mi invitava alle sue mostre ma a me non interessava. Crescendo ho avuto più consapevolezza del suo talento ma non ne parlavamo, io non parlavo dei suoi quadri come lui non parlava del mio mestiere d'attore, eppure sapevo che era orgoglioso di me".
Al termine dell'intervista, Mario Sesti pone la domanda a cui, probabilmente, tutta la platea di giornalisti ha pensato ma che non ha avuto il coraggio di esternare: "Se, un giorno, volesse realizzare un biopic su suo padre, da chi vorrebbe che fosse diretto? Sarebbe in grado di interpretare la storia di suo padre al cinema?". De Niro risponde: "Non so, mi viene spontaneo pensare a Scorsese. Ma, forse, non sono ancora in grado di interpretare mio padre. Sono vicende molto private. Non so. Non sono ancora pronto a leggere per intero neanche i suoi diari personali".
Al termine dell'incontro, aleggia in sala un alone di malinconia, un retrogusto agrodolce strettamente connesso alla sensazione di aver gettato uno sguardo su un periodo fondamentale della vita di Robert De Niro che si è letteralmente denudato davanti la macchina da presa. Il pubblico, che è abituato a guardare agli attori impressi sulla celluloide come fossero intangibili mostri sacri, con il loro sguardo impenetrabile e il tono di voce stentoreo, ha scoperto il tormento e la fragilità di uno dei migliori allievi dell'Actor's Studio. Il dolore si è fatto reale, ha scavalcato il sottile limen dell'immaginario. Il grande talento intacca profondamente chi ne è latore. Probabilmente, è questo il prezzo da pagare.

domenica 16 novembre 2014

INTERSTELLAR

di Egidio Matinata

Un film di Christopher Nolan. Con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Michael Caine. Fantascienza, drammatico. Durata 169 min. USA 2014
In un futuro non molto lontano, la Terra è al collasso. Cambiamenti climatici portano ad un mondo in cui tutto è perennemente avvolto dalla sabbia e dove, di anno in anno, il raccolto scarseggia sempre di più. Un ex pilota della NASA viene messo a capo di una missione che intende esplorare nuovi pianeti, in altre galassie, che possano garantire la sopravvivenza della razza umana.                             
Interstellar non è 2001:Odissea nello spazio, e non vuole esserlo. In questi giorni se ne sta parlando tanto e i paragoni si moltiplicano a vista d’occhio, sia per coloro che vogliono osannare il film sia per coloro che vogliono denigrarlo. Vuole ricrearne le atmosfere e le sensazioni, ma non ha mai la pretesa di porsi alla pari del capolavoro di Kubrick (comunque citato in diverse sequenze). 
L’ultima opera di Christopher Nolan non intende  parlare del cosmo, di Dio o delle forze superiori che governano il mondo, ma ha al suo centro l’Uomo, con la sua forza,  la sua sete di sapere e conoscere sempre di più, ancora prima di pensare alla sua sopravvivenza; ma anche le sue contraddizioni e i suoi difetti (l’egoismo, principalmente) vengono messi in risalto. Tutti quanti vivono una battaglia interiore nelle scelte che la vita e il loro viaggio pone loro contro. Ed essendo una storia profondamente umana non poteva non avere come fulcro l’amore, in particolare quello di un padre per la propria figlia. Cosa abbastanza inusuale nel cinema del regista britannico, che era solito concentrarsi maggiormente sulla componente formale, narrativa e psicologica più che su quella emozionale (anche se i germi di questo cambiamento si vedevano già in Inception e nell’ultimo capitolo della trilogia su Batman, purtroppo non molto riuscito).            
Uno degli aspetti più importanti e innovativi di questo film, si trova nella prima parte: l’inizio proietta lo spettatore in un futuro, non molto lontano, in cui l’umanità, troppo provata dall'ostile mutamento del clima, abbandona ogni fiducia nella scienza a favore dell’agricoltura. Nelle scuole i libri di testo sono cambiati e alle nuove generazioni viene insegnato che non c’è stato nessuno sbarco sulla Luna. Cosa abbastanza inusuale per un film di fantascienza, genere in cui solitamente il futuro viene immaginato con un surplus e un’evoluzione ulteriore delle tecnologie, oppure in uno scenario post-apocalittico nel quale in pochi sono riusciti a sopravvivere.                                                                     In questo contesto, Cooper (Mattew McConaughey) rappresenta un uomo del vecchio mondo, quello dei pionieri e degli esploratori, e non dei “guardiani”. E qui c’è un altro concetto centrale del film che riguarda tutta la storia del genere umano e, in modo particolare, la cultura americana, cinematografica e non: il tema della frontiera e del viaggio. Ed è proprio attraverso il viaggio interstellare che Cooper e (forse) tutta l’umanità riacquista la sua vera identità, riscopre la sua sete di conoscenza e realizza il suo passo più grande.                                                                                                                    
La parte finale del film, fino a quel momento molto accurato dal punto di vista scientifico, cede il
passo ad una maggiore componente fantascientifica, cosa che ha fatto storcere il naso a molti spettatori. Ma forse è proprio questa la parte più affascinante e significativa, che spinge ancora di più il pedale dell’ottimismo nei confronti dell’umanità, e osa andare in luoghi che non avremmo mai immaginato. Luoghi lontanissimi eppure più vicini di quanto pensiamo. Si, perché il film di Nolan osa prima di tutto, si prende dei rischi nel farlo, e come è naturale che sia, in alcuni punti inciampa. Ci sono dei passaggi nella storia che finiscono per risultare macchinosi e poco fluidi. A volte i personaggi sono costretti a spiegare ciò che sta succedendo, per via della difficoltà degli argomenti trattati.
Questa pellicola rappresenta un punto e a capo nella filmografia di Christopher Nolan, sia sul versante tematico che formale. Ha lasciato indietro alcuni temi sempre presenti nei suoi film (il tema del doppio, il senso di colpa, il confronto tra verità e menzogna…) e ne ha utilizzato nuovi. Anche tecnicamente c’è stato un grande cambiamento nel suo stile: molta più macchina a mano, sempre vicina ai personaggi, una fotografia meno glaciale, più “calda” e un ritmo non incalzante ma più trattenuto. Come è trattenuto anche l’uso degli eccezionali effetti speciali e della colonna sonora, solenne ed evocativa, ma mai invadente, e magnificamente alternata ai silenzi dello spazio profondo. Interstellar è un film audace, ambizioso, spettacolare e commovente. Non esente da difetti, che in qualche punto lo fanno vacillare, ma che non intaccano l’affascinante bellezza di un’opera profondamente umana.

lunedì 10 novembre 2014

DUE GIORNI, UNA NOTTE

di Matteo Marescalco
 
Presentato in anteprima alla 67esima edizione del Festival del Cinema di Cannes, Due giorni, una notte segna il ritorno dietro la macchina da presa dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, autori, tra gli altri, di Rosetta, L'Enfant-Una storia d'amore, Il matrimonio di Lorna e Il ragazzo con la bicicletta.
Protagonista del lungometraggio è Sandra (interpretata da Marion Cotillard) che, a rischio licenziamento a causa di recenti problemi di salute e assistita dal marito (il fido Fabrizio Rongione), ha a disposizione due giorni e una notte per andare dai suoi colleghi e convincerli a rinunciare al loro bonus lavorativo affinché lei possa conservare il proprio posto di lavoro.
I Dardenne regalano ancora una volta agli spettatori un dramma sociale intenso ed immediato, mostrando, senza filtri inibitori, un ambiente lavorativo in cui, sullo sfondo della crisi economica, sembra dominare la legge della convenienza. Viene portato in scena un bellum omnium contra omnes in cui si bada unicamente al vantaggio personale a scapito della solidarietà.
I fratelli cineasti di origine belga adottano, principalmente, due stili di ripresa: in determinate sequenze la macchina da presa tallona la protagonista femminile, restituita tramite una serie di piani ravvicinati con l'evidente intento di effettuare un approfondimento psicologico degno di nota; altri momenti sono ripresi tramite lunghi piani sequenza che consentono ai Dardenne una rappresentazione quanto più aderente possibile alla realtà.
Centro focale della vicenda è la figura di Sandra, che ingurgita Xanax come fossero caramelle e che agisce come motore propulsore di uno sviluppo narrativo un po' farraginoso. A fare da sfondo è il graduale deterioramento di una classe sociale che, impoverita dalla crisi economica, non riesce più a trovare nel lavoro uno strumento di riscatto.
Qual è il valore che il mondo del lavoro attribuisce ad un essere umano? E' questo l'interrogativo che sobbalza nella mente dello spettatore al termine della proiezione.
Tuttavia, una decisa dose di impegno sociale non basta a realizzare un buon film. L'esito dei singoli incontri tra Sandra e i suoi colleghi è piuttosto scontato, così come la conclusione della vicenda che appare ricattatoria fin dalla scelta di mettere in campo una protagonista depressa (non si capisce il perchè) a cui viene concesso un parziale riscatto finale che le restituisce quella dignità che ha rincorso per tutta la durata del lungometraggio.
Si ha l'impressione di aver assistito ad un film che non lascia nulla, che non coinvolge, che gioca in modo ricattatorio ed opportunista con i suoi personaggi e con i sentimenti dello spettatore. Sarebbe l'ora di finirla con questo Cinema telecomandato che nasconde, dietro il velo di Maya dell'impegno sociale, un vuoto di fondo.

mercoledì 5 novembre 2014

INTERSTELLAR

di Matteo Marescalco
 
Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
(vv. 119-120 Divina Commedia-Inferno-Canto Ventiseiesimo)

Configurare le immagini cinematografiche sotto forma di racconto non è stato uno sbocco automatico del Cinema, ma è stato dettato dalla volontà di un sempre maggiore coinvolgimento del suo pubblico. Nulla coinvolge i fruitori più che assistere ad una narrazione che riguarda se stessi alle prese con pericoli incommensurabili, in lotta contro l'ignoto, alla scoperta di mondi potenziali e di realtà parallele.
Il cinema di Christopher Nolan ha sempre sfruttato i meccanismi di genere. Il regista inglese ed il fratello Jonathan (sceneggiatore dei suoi film) hanno ancorato le loro storie a una progressione narrativa in modo tale da poter realizzare le ricerche e le sperimentazioni più avanzate nel tessuto formale. E' l'intrigo narrativo a dotare le immagini di un'indubbia vis seduttiva.
Interstellar è il film più personale di Christopher Nolan che ritorna dietro la macchina da presa due anni dopo la conclusione della trilogia incentrata su Batman, riuscendo a creare, ancora una volta, un evento mediatico di ingenti proporzioni. Probabilmente, la vera forza del film risiede in questo: nell'afflato epico che lo caratterizza.
Girato in IMAX e su pellicola 70mm (l'avversione di Nolan nei confronti del digitale è cosa nota), il lungometraggio è ambientato in un futuro prossimo in cui l'ambiente è color seppia a causa di una costante tempesta di sabbia che ha messo in ginocchio i raccolti. Il terreno è arido, i bambini vengono iniziati all'agricoltura e viene insegnato loro che l'uomo non è mai andato sulla luna. In questo clima di rassegnazione dilagante, l'ex astronauta Cooper (Matthew McConaughey) non getta la spugna e scopre, grazie all'intuito della figlia appassionata di scienza, che la NASA non è ancora morta e che ha organizzato, nel corso del passato decennio, una serie di missioni. L'obiettivo è quello di individuare, in una galassia parallela penetrabile tramite un warmhole (un cunicolo spazio-temporale), un pianeta alternativo in cui poter portare in salvo la razza umana e garantire la salvaguardia della specie. Tra stringhe temporali e realtà parallele, buchi neri e pianeti inospitali, ha inizio una ricerca interstellare che porterà l'uomo al di là della conoscenza tradizionale, a contatto con la sua vera natura.
Interstellar è il racconto di un'odissea spaziale, quella di Cooper, moderno Ulisse che non accetta la perdita di aspirazione nella specie umana. Il personaggio interpretato straordinariamente da McConaughey è una figura archetipica che incarna lo spirito di avventura e, al contempo, tutto il calore di un padre di famiglia che, dopo la morte della moglie, deve sostenere il peso dell'educazione dei propri figli in solitaria. E' un uomo fuori dal tempo che non tollera la fine dei sogni di gloria dell'umanità, il suo snaturamento.
Prima di raggiungere le stelle, Interstellar è ambientato sulla Terra, nel cuore dell'America, dove piccole comunità di agricoltori si dedicano alla coltivazione del grano. L'eco di Signs di M. Night Shyamalan è molto forte. Entrambe le famiglie protagoniste hanno perso la figura della madre, entrambi i padri sono alle prese con una scelta che potrebbe seriamente condizionare il loro futuro. L'ambientazione è la stessa: quella fattoria isolata dal resto della città che indica sicurezza familiare, che rappresenta figurativamente gli affetti genitoriali ma che, allo stesso tempo, trasmette una sensazione di alienazione, di solitudine estrema.
In molti hanno accostato Nolan a Stanley Kubrick (gli omaggi a 2001 Odissea nello spazio non sono

celati) per l'asetticità e la freddezza che domina i lungometraggi dei due registi. Interstellar più che essere un film kubrickiano, risente nettamente dell'influenza dell'estetica di Steven Spielberg e, in genere, della sua fantascienza anni '70 che guardava all'orizzonte spaziale con una gran dose di speranza. Lo spazio ignoto, al contrario che in Gravity (in cui si configurava come luogo di lotta dei tormenti interiori della protagonista e di risoggettivizzazione interiore), non è visto in maniera ostile.
Si può anche arrivare ad affermare che Interstellar non sia un vero e proprio film fantascientifico. La narrazione, infatti, si sviluppa attorno a due linee diegetiche: una legata al viaggio spaziale (che domina le prime due ore circa del film) e l'altra legata al rapporto padre-figlio. Christopher Nolan, da gran prestigiatore qual è, consente il dispiegamento di entrambe le linee diegetiche tramite un abile utilizzo del montaggio parallelo per poi andare ad effettuare una fusione degli elementi razionali e sentimentali, inscindibilmente legati l'un l'altro. In mezzo a tante scelte da prendere in pochissimo tempo (per la teoria della relatività, c'è una discrasia tra Tempo spaziale e terrestre) riguardanti la salvezza dell'umanità, viene gettata una luce sui sensi di colpa del sacrificio paterno e sui rimpianti verso un mancato rapporto genitoriale. Fino a che punto l'orizzonte privato può essere sacrificato per preservare l'orizzonte pubblico? Qual è il peso specifico dell'amore nel perfetto meccanismo ad orologeria che è il mondo?
Ecco che, alla fine dello spettacolo, le tre ore di viaggio intergalattico, le speculazioni filosofiche, i pipponi scientifici e alcune cadute di stile passano in secondo piano di fronte al nucleo fondante del film, l'amore di un padre per la propria figlia, incastonato all'interno delle più solide dinamiche di genere.
Poco importa dei buchi di sceneggiatura, dell'emorragia narrativa cui va incontro la vicenda con lo sviluppo della trama, della discontinuità nei ritmi, di personaggi meramente accessori (Casey Affleck, perchè?!), di fallimentari scimmiottamenti kubrickiani e di finali giunti troppo in fretta e vistosamente accomodati.
Interstellar non è il nuovo 2001 Odissea nello spazio, non ne ha la portata filosofica e metafisica. E' un grande film che stupisce, emoziona, commuove. Un colosso imperfetto che cede lentamente sotto il peso delle proprie ambizioni e che muore malamente. Ma che, a differenza della maggiorparte dei blockbuster girati oggigiorno, è dotato di un'indubbia carica vitale.

http://www.letterefilosofia.it/2014/11/p21156/ (Il Giornale di Letterefilosofia.it)