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martedì 17 giugno 2014

JERSEY BOYS

di Matteo Marescalco


Basato sull’omonimo musical del 2006 e sulla sceneggiatura di John Logan, Jersey boys segna il ritorno dietro la macchina da presa di Clint Eastwood, che, tre anni dopo J. Edgar, realizza un film che sta alla sua filmografia come A serious man sta a quella dei fratelli Joel ed Ethan Coen. Trattasi infatti di lungometraggi lineari e, per certi versi, minimalisti, che si avvalgono di un cast di attori poco famosi e che sembrano essere stati realizzati per soddisfare un’esigenza "sentimentale" dei rispettivi realizzatori. A serious man è l’apice della poetica dell’inesorabile sconfitta immotivata di cui i Coen sono i principali cantori cinematografici e un atto di amore nei confronti dei loro personaggi, freaks destinati al fallimento cronico. Jersey boys (il terzo film musicale di Eastwood dopo Bird e Honkytonk Man) è indubbiamente permeato di riferimenti autobiografici: Eastwood padre era un metalmeccanico appassionato di musica e aveva un suo gruppo con cui cantava blues e country per arrotondare.
Presentato in anteprima europea alla 60esima edizione del Taormina Film Fest, Jersey Boys narra la storia dei Four Seasons, il gruppo di Frank Valli, costituito da quattro ragazzi provenienti dal New Jersey, alle prese con sogni, aspirazioni, e, soprattutto, con la dura realtà pronta ad abbattere ogni loro utopia.
Nonostante la non esigua lunghezza (138 minuti circa), il lungometraggio non annoia mai, grazie alla struttura bipartita e ad una serie di espedienti sul versante della messa in scena. La prima parte del film è dedicata alla presentazione dei personaggi che, spesso, interagiscono con il pubblico, rompendo la quarta parete e volgendo il loro sguardo direttamente in macchina, con un’evidente volontà di potenziamento dell’identificazione tra fruitori e attanti. Impariamo a conoscere, così, le differenti personalità di questi quattro ragazzi che, per il bene del gruppo, riescono, almeno inizialmente, a superare i contrasti e a limare le loro discrasie caratteriali. Nella seconda parte, Jersey boys subisce uno spostamento di baricentro: l’attenzione del regista si sposta dal gruppo all’individualità di spicco, Frank Valli. L’occhio della macchina da presa segue il fallimento della sua vita sentimentale e gli episodi alla base della morte della figlia, necessaria per la stesura della canzone "I love you baby". Il gruppo si scioglie a causa di una serie di fratture insanabili e ogni componente segue, più o meno, la propria carriera da solista fino al momento della riconciliazione e dell’ultimo concerto, che coincide con l’apice del climax discendente della struttura diegetica che è soggetta ad una netta virata verso sentimenti tanto buonisti quanto farlocchi e ostentati.
Alle prese con l'ennesimo biopic, Eastwood inserisce abilmente la storia dei Four Seasons nell'ambiente italoamericano della New York degli anni '60 tipico di molti lungometraggi scorsesiani. Ad interpretare il boss locale, Gyp DeCarlo, è l'attore Christopher Walken (intenso è il momento in cui risuonano le note di "I love you baby", prodighe di emozioni cacciatoriane), al limite della gigioneria esibizionista.
 

Fiore all'occhiello del film è la grande cura e la ricerca formale anche nella fotografia, mentre, a risultare più deboli sono il trucco amatoriale utilizzato per invecchiare i quattro musicisti (anche in J. Edgar fu annichilente), sfiorando l'effetto grottesco, e la scelta di far rivolgere gli attori direttamente alla macchina da presa, senza che ognuno di essi fornisca, in realtà, un proprio punto di vista sulla diegesi.
Si tratta, quindi, di un buon film, ben curato e recitato, il cui risultato è, però, al di sotto delle aspettative. Tutto, infatti, rispetta gli stereotipi di genere e Eastwood non è riuscito a infondere il proprio sguardo autoriale al film che risulta slavato e, a tratti, privo di verve.