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mercoledì 26 marzo 2014

CAPTAIN AMERICA: THE WINTER SOLDIER

di Matteo Marescalco
 
Chris Evans torna ad indossare per la settima volta i panni di un supereroe (I fantastici 4, I fantastici 4 e Silver Surfer, Captain America-Il primo Vendicatore, The Avengers, Thor: The Dark World), in Captain America: The Winter Soldier, sequel dell'episodio del 2011 diretto da Joe Johnston, che ha lasciato il timone del film ai fratelli Anthony e Joe Russo.
Dopo essersi risvegliato da un sonno criogenico di 65 anni circa, Steve Rogers, l'eroe americano senza macchia, continua a servire gli USA, tramite lo S.H.I.E.L.D di Nick Fury. I due, dopo una serie di attentati intimidatori, scoprono che, probabilmente, l'Hydra (agenzia nazista nemica dello S.H.I.E.L.D.) non è stata del tutto debellata ma si è infiltrata all'interno della stessa organizzazione di Fury. Captain America dovrà vedersela con un nuovo temibile nemico: il misterioso killer Winter Soldier. A fianco di Steve Rogers si schierano Vedova Nera (interpretata da Scarlett Johansson) e Falcon (Anthony Mackie). Tra tradimenti e colpi di scena (attenzione all'interessante personaggio di Robert Redford!), sequenze ad alto tasso d'adrenalina ed eccessiva verbosità, riuscirà Captain America a salvare nuovamente gli USA?
L'ultimo cinecomic targato Marvel segna ulteriormente la differenza che caratterizza i personaggi creati da Stan Lee da quelli della DC Comics, o quantomeno, della loro trattazione cinematografica (chi vi parla non è assolutamente un esperto di fumetti). Il 2005 è stato un anno fondamentale per il genere dei cinecomic: con Batman Begins, primo episodio della trilogia dedicata all'uomo pipistrello, Christopher Nolan ha posto le basi per un nuovo approccio al mondo dei supereroi. Da quel momento in avanti, i film tratti dai fumetti della DC sono stati caratterizzati da una notevole introspezione psicologica dei personaggi, eroi ambigui, spesso ingiustamente rifiutati dalla società in cui operano, alle prese con problemi legati alla loro identità, ai rapporti con il passato, alla sottile linea di demarcazione tra Bene e Male, che convivono in loro come due facce della stessa medaglia, elementi antitetici ma pur sempre complementari.
I film tratti dai fumetti Marvel, al contrario, sono stati caratterizzati da un approccio più “fracassone” e spensierato, con particolare attenzione all'entertainment ed un grado di introspezione psicologico inferiore dei personaggi che, in tal modo, risultano, poco più che blocchi di marmo monoespressivi. Negli ultimi anni, i registi che si sono accostati ai personaggi Marvel hanno realizzato una serie di crossover e di film team-up, lungometraggi segnati dalla presenza, nello stesso episodio, di supereroi alleatisi, ma che, normalmente, agiscono separati. Ecco delinearsi quello che è stato definito Universo Marvel, dimensione spazio temporale immaginaria in cui si svolge la maggior parte delle avventure
dei personaggi dei fumetti della omonima casa editrice americana. Ragion per cui, a differenza della scrittura filmica degli adattamenti della DC, che ha mantenuto un carattere maggiormente legato alle modalità cinematografiche (sviluppo di una storia orientata teleologicamente alla risoluzione di tutti (o quasi) gli elementi in ballo), le trasposizioni Marvel sono state caratterizzate dallo sviluppo di modalità seriali, potenziate dal fatto che gli ultimi episodi sono stati supervisionati da autori provenienti dal mondo della televisione (Joss Whedon su tutti). La conseguenza, ovviamente, è che ogni episodio si pone come un tramite per il successivo e come un mero strumento per portare avanti la vicenda narrata.
Captain America: The Winter Soldier risente di tutte le debolezze dei precedenti film Marvel (con l'eccezione dei primi due capitoli della trilogia di Spider Man di Sam Raimi): vicenda molto semplice e lineare, personaggi monocordi e provoloni, scadente approfondimento psicologico, bilanciata alternanza tra scene d'azione spettacolari che risvegliano dal torpore della prima ora di dialoghi, battute esilaranti per abbassare ulteriormente il tono e complessiva velocità di scrittura che, tutto sommato, lascia che i 135 minuti scorrano in modo abbastanza rapido ed indolore.
Quest'ultimo episodio è più riuscito del precedente grazie alle sfumature da spy story, all'inserimento di due interessanti villain (appunto, The Winter Soldier e Alexander Pierce, un sacrificato Robert Redford che presta il suo volto ad un vecchio membro dello S.H.I.E.L.D., centro focale della riflessione sull'ambiguità di chi detiene il potere negli USA e sui compromessi su cui si regge la Repubblica americana, a rischio implosione) e a scelte registiche che dimostrano un miglioramento della messa in scena, tra piani sequenza, omaggi citazionisti e scene d'azione riprese con il giusto dinamismo.

Voto: ★★1/2

mercoledì 19 marzo 2014

NON BUTTIAMOCI GIU'

di Matteo Marescalco
 
Quarta trasposizione cinematografica da un romanzo di Nick Hornby, dopo Febbre a 90°, Alta fedeltà ed About a boy, Non buttiamoci giù è il primo film inglese del regista francese Pascal Chaumeil, autore dei recenti Il truffacuoriUn piano perfetto.
La storia trova la sua genesi nella notte di Capodanno, quando quattro sconosciuti, accomunati dalla volontà di suicidarsi, si incontrano sul tetto di un grattacielo. Martin (Pierce Brosnan), Maureen (Toni Colette), J.J. (Aaron Paul) e Jesse (Imogen Poots) arrivano ad un compromesso: nessuno dei quattro si suiciderà per almeno sei settimane e la notte di San Valentino si ritroveranno sullo stesso grattacielo per fare il punto della situazione sulle loro vite.
Pierce Brosnan è uno showman rimasto coinvolto in uno scandalo sessuale con una minorenne che ha sconvolto la sua carriera, Toni Colette una madre alle prese con un figlio gravemente malato, J.J. un pizza boy con un tumore al cervello e Jesse è la figlia di un ministro inglese (Sam Neill), rimasta traumatizzata dall'improvvisa scomparsa della sorella. I quattro, dopo aver tentato di speculare sul non-evento che li ha coinvolti, decidono di andare in vacanza a Tenerife per poi separarsi, a causa di una serie di divergenze, e ritrovarsi, dopo aver percorso il cammino che li ha condotti ad una presa di coscienza sugli eventi drammatici delle loro vite.
La caratteristica peculiare e che rende commerciali i romanzi di Nick Hornby risiede nella trattazione di vicende drammatiche in modo ironico e nell'abile intreccio di amarezza e brio comico, che il regista non è stato in grado di mantenere in questo adattamento. L'alternanza di toni vede il prevalere, in molte scene, della corda comica su quella tragica ed introspettiva; tutto ciò porta non solo ad una semplificazione generale ma anche al venir meno dell'equilibrio narrativo e della delineazione caratteriale dei personaggi, le cui motivazioni psicologiche alla base dei loro gesti restano, almeno in tre casi su quattro, un mistero. I pochi momenti drammatici, inoltre, risultano terribilmente fittizi e sgradevoli, collocati in modo posticcio in zone “erogene” del film con il solo obiettivo di andare a stuzzicare, a livello empatico, lo spettatore, favorire la sua identificazione con i personaggi della vicenda (che restano, però, dei totali sconosciuti) e orientare la storia verso l'immancabile happy ending finale. La diegesi è caratterizzata da quattro capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad uno dei personaggi coinvolti nel mancato suicidio, che assume, in quel frangente, il punto di vista narrante. Peccato, però, che quest'operazione diegetica duri solo i primi cinque minuti di ogni capitolo per poi terminare, nuovamente, nella più totale promiscuità narrativa.
Pascual Chaumeil ha il merito di aver realizzato la peggiore trasposizione da un romanzo di Hornby. D'altronde, qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto guadagnare questo titolo.

Voto: ★★

NOI 4

di Matteo Marescalco


Francesco Bruni, fido compagno di giochi e di sceneggiature di Paolo Virzì, torna dietro la macchina da presa per dirigere la commedia Noi 4, tre anni dopo Scialla! (Stai sereno), presentato nella fu sezione Controcampo italiano della 68esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
L'attenzione del lungometraggio è focalizzata su un solo giorno nella vita di una famiglia borghese romana: il padre è un artista sfaccendato e simpatico, ma poco affidabile; la madre, ingegnere, è una stakanovista che ha completamente dedicato la propria vita ai figli e alla propria professione; per il timido Giacomo è arrivato il momento di affrontare l'esame orale di terza media e di dichiararsi ad una sua compagna di scuola; la sorella, Emma, è una ventenne idealista, con aspirazioni da attrice teatrale, affezionata al padre e distante dalla madre.
Come ha fatto notare, in conferenza stampa, Marco Spagnoli, se il Cinema arabo è sempre stato definito il Cinema delle terra, così la famiglia è stata ed è il nucleo fondante del Cinema italiano. Bruni spiega in cosa risiede la differenza tra la sua famiglia e quella della tradizione italiana:
 “Per me, loro quattro sono come Gli incredibili, i personaggi del film Pixar che ho anche citato con un poster: quando sono assieme, si stringono l'uno vicino all'altro, hanno poteri e forze straordinarie che li rendono in grado di superare ogni ostacolo. Da tempo trovo strano il fatto che il genere di famiglia che racconto nel mio film (una famiglia borghese, progressista e metropolitana) non fosse rappresentata nel cinema italiano di oggi. Per me era importante pensare che ci potesse essere un pubblico per questo genere di personaggi. E ho scelto i miei attori cercando tra quelli che potessero restituire un'idea realistica delle famiglie che conosco, che potessero non sovrapporre il loro volto a quello dei personaggi, che fossero unicamente funzionali ai loro personaggi".
Alla domanda su cosa lo avesse spinto a scrivere e dirigere questo film, il regista ha risposto in tal modo: “Il desiderio di esplorare un territorio, quello dei rapporti tra i componenti della famiglia contemporanea, la cui rappresentazione mi sembrava assai poco aggiornata. In genere, mi pare che si tenda a darne un'immagine troppo semplicistica ed edulcorata o, viceversa, tragica. Raramente vedo raccontare famiglie comuni, come quelle che frequento e conosco”.
Sulle analogie e differenze tra Scialla e Noi 4, Bruni ha detto: “In entrambi i film si parla di rapporti tra genitori e figli, anche se, in Noi 4, la dinamica è più composita e complessa. Il mio film d'esordio era più semplice e lineare, più “sciallo”, questo, invece, è più ritmato e frenetico”.
Per quanto riguarda il versante tecnico, il film non brilla per particolari trovate registiche, Bruni svolge con professionalità il proprio compitino aiutato dallo scenario naturale offerto da alcuni scorci di Roma fotografati da Arnaldo Catinari che sfrutta la luce dell'alba e del tramonto per creare interessanti contrasti che stimolano in modo abbastanza scontato la corda dell'emozione facile.
Nel ritratto dei personaggi della sua storia, ognuno foriero di pregi e difetti, il regista e sceneggiatore evita un giudizio etico, dicendo di aver fatto tesoro della lezione di Suso Cecchi D'amico e di Furio Scarpelli: “Cerco sempre di trovare il meglio in tutti, di cercare il positivo nei personaggi negativi e viceversa”.
E, purtroppo, risiedono proprio nella volontà del regista di alzare la posta in gioco rispetto al film precedente, nella sua presunzione di andare a descrivere una famiglia metropolitana che si avvicinasse maggiormente ad una famiglia reale e nella delineazione dei personaggi, i maggiori punti deboli del film.
Rispetto a Scialla si respira la mancanza di freschezza e di immediatezza di situazioni e dialoghi. Le stesse interpretazioni della compagine attoriale, salvata da un ottimo Fabrizio Gifuni finalmente alle prese con un ruolo brillante, risultano essere poco naturali e forzate, grave difetto per un film che vorrebbe descrivere e rappresentare (senza deformare), con ironia quasi del tutto assente, la situazione di una reale famiglia italiana, lontana dai soliti stereotipi televisivi e non, attingendone, in realtà, a piene mani. Noi 4 risente dell'assenza di Filippo Scicchitano, giovane della periferia romana, che si muoveva con scioltezza davanti all'obiettivo della macchina da presa, risultando perfettamente a proprio agio nei panni del ragazzo alle prese con un problematico rapporto con il padre. Tutti e quattro i personaggi presentano un carattere bivalente che aderisce pienamente a tutti i luoghi comuni di genere (l'artista fallito e benestante di famiglia che tradisce la moglie, la madre piena di ansie e preoccupazioni che porta i soldi a casa e che si accorge all'improvviso di essere avanti con l'età, la figlia attricetta da quattro soldi che occupa il Teatro Valle e che vorrebbe fuggire con il regista teatrale francese rubacuori, il ragazzino timido e impacciato che alla fine riuscirà a conquistare la compagna per cui ha un debole). In questa valle di banalità, Bruni non è riuscito a trattenersi e a risparmiarci la scena di morettiana memoria in cui, in auto, i quattro componenti della famiglia, sulla strada della catarsi e del perdono reciproco, si ritrovano ancora uniti dall'ascolto di una canzone di svariati anni prima (qua tocca a   Dancing in the moonlight). Che dire, evidentemente, in una situazione di disagio familiare, cantarla in coro aiuta a risolvere i propri problemi.
Francesco Bruni ha sempre costruito le proprie sceneggiature concentrando la sua attenzione, più che sulla stesura di un racconto dotato di ampiezza narrativa, sulla delineazione di personaggi che si prestavano naturalmente al pericolo di cadere in luoghi comuni e banalità, riuscendo, però, a sfruttare a proprio favore questa eventualità, mostrando i loro lati più teneri e deboli, i loro dubbi e le loro idiosincrasie, giocando con loro, carezzandoli e prendendoli in giro bonariamente, come solo un grande miniatore di caratteri riesce a fare. Sorge spontaneo pensare alla timida ed impacciata Caterina che, con la famiglia, si trasferisce a Roma, grande città che di timido ed impacciato ha ben poco; ai burini fascisti e agli artisti comunisti di Ferie d'Agosto, le cui fallimentari ispirazioni si incrociano durante la notte di San Lorenzo; alla laureata precaria di Tutta la vita davanti che, nonostante il 110 e Lode, non riesce a trovare lavoro.
In Noi 4 sono di un certo interesse le interazioni narrative tra i vari personaggi che consentono di notare un salto di qualità nel Bruni narratore, che applica al film una diegesi reticolare che segue, in un tira e molla, i membri famigliari durante le varie parti del giorno.
In definitiva, però, ciò che manca a Noi 4, a differenza dei film precedentemente sceneggiati dal regista, è il cuore, la voglia di rischiare e di evitare di portare in scena personaggi “preconfezionati” e l'attenzione all'evoluzione corale dei caratteri, la cui scrittura individuale presenta serie lacune.

Voto: ★★1/2