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lunedì 3 febbraio 2014

MAY YOU BE IN HEAVEN HALF AN HOUR BEFORE THE DEVIL KNOWS YOU'RE DEAD

"Sapete cosa mi spaventa di più? Pensare che anche loro, gli attori e le attrici che amo, i miei eroi, siano fragili. Così terribilmente "umani". Nonostante le spalle grandi, gli occhi impenetrabili, una voce imponente e un corpo che da solo, basterebbe a dominare la scena. Ad evitare il male e gli sguardi che pungono e affondano come lame. Ma la verità è un'altra. E ci fa male ammetterla, perché noi a questi eroi di celluloide chiediamo la perfezione. Chiediamo tutto e il contrario di tutto. E' da loro che dobbiamo imparare a superare noi stessi, a ricrearci quel momento di gloria che rimanga fisso, in eterno. A loro chiediamo di essere forti come la pietra. Chiediamo di raccontarci ogni aspetto della vita. Di ridere, piangere e di fare tutte le parti che la fantasia, o la cruda realtà, mettano a disposizione. (...) Non è solo un uomo dalle spalle larghe e ingombranti. E' un mostro posseduto dall'arte della recitazione. Un servo dell'Arte, un uomo che non può scegliere di liberarsi o meno. Quando penso ai grandi attori provo un senso di frustrazione, che non è mia. Sembra venire da loro stessi. Perché ogni volta che me li immagino al di fuori di quel ruolo assegnatogli, vedo solamente uomini o donne tormentati. Perché? Forse perché è davvero questo il prezzo da pagare...non lo so.
(...) Oggi se ne va un attore immenso, un uomo tanto grande quanto fragile. Vorrei solamente conservare il più a lungo possibile quest'immagine che parla di un gigante complicato e pieno di passione. Un artista che sembra essere nato già imparato, con quella impeccabile maniera di stare sulla scena e dar vita ad ogni impulso. Sono poche le volte in cui il dolore si fa reale, scavalcando quel confine dell'immaginario e del mito. Oltre quel grande schermo troviamo i nostri eroi e li facciamo tanto veri, da non riuscire ad accettare il fatto che se ne vadano via. Senza tornare più, se non nel ricordo o in quel mondo circoscritto e astratto, fatto di immagini che si rincorrono". (Valentina Orsini per http://criticissimamente.blogspot.it/)

Perché era il più grande? Ci ho passato la notte sopra, e ho pensato questo: aveva a che fare con l’imbarazzo. Philip Seymour Hoffman portava una specie di pudore tradito, la vergogna di quel corpo sgraziato, di quel pallore rosato. Era lo stesso pudore, era la stessa vergogna, che tiene la gente a casa, che la attacca al pc e la spinge a cercare conforto nelle relazioni virtuali. Lui, in qualche modo, l’aveva trasformata in bellezza, perfino in carisma. Ne aveva fatto il suo mestiere. Ma non era una cosa che costasse poco. Si portava dietro una fatica che traspariva sempre, e che nel suo privato era diventata ossessione, dipendenza da alcool e stupefacenti. Non nascondeva nulla. Ogni debolezza era un altro pezzo di bravura, diventava repertorio". (Giorgio Viaro per Best Movie)

"La goffaggine nel trattare col padre, una virilità tutta scomposta, il fisico imbolsito di chi è diventato grassoccio dopo l’università e non dimagrirà mai più, il desiderio di sentirsi adulti e il non saper da dove cominciare: Philip Seymour Hoffman dava un corpo a tutto questo; a una comunità di spettatori che vedeva in lui un attore che riusciva credibilmente a raccontare personalità complesse, iperemotive, disfunzionali, terribilmente sincere. (...) È come se fosse morto qualcuno che non è mai stato giovane, nel senso di dilettante, amatoriale, imberbe. Come se Philip Seymour Hoffman non si fosse data la possibilità di vivere un’era di sfrontatezza, di improvvisazione, di incertezza. Forse per questo, in modo molto banale forse, credo di averlo molto amato: mi sembrava rappresentasse un’incarnazione perfetta del sistema sentimentale della mia – la vogliamo chiamare così? – generazione: un mondo di iperconsapevoli, disincantati a vent’anni, ancora fragilissimi a quaranta". (Christian Raimo per http://www.minimaetmoralia.it/wp/)