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martedì 10 settembre 2013

IL CINEMA DI ALFONSO CUARON: IL ROAD MOVIE COME VIAGGIO METAFISICO VERSO UNA RI-NASCITA ESISTENZIALE

di Matteo Marescalco

«Io sono profondamente e coscienziosamente ateo, e non ho nessun tipo di problema religioso. Anzi, attribuirmi una tranquillità spirituale di tipo religioso è innanzitutto non capirmi, e poi offendermi. Non è Dio che mi interessa, ma gli uomini» (Luis Bunuel).

In anni recenti, i cineasti messicani hanno destato scalpore a livello mondiale. Tra loro, si sono particolarmente distinti Alfonso Cuaròn, Alejandro Gonzalez Inarritu e Guillermo Del Toro, con i rispettivi direttori della fotografia, Emmanuel Lubezki, Rodrigo Prieto e Gulliermo Navarro. Pellicole come La piccola principessa, Il labirinto del fauno, Amores Perros, Y tu mamà tambièn La spina del diavolo, uscite in sordina in tutto il mondo, sono riuscite a conquistare in breve tempo il cuore dei critici e degli spettatori.
I registi messicani si sono sempre affiancati al Cinema in modo particolare, utilizzando la Settima arte come pretesto per accostarsi ai problemi politici, sociali ed antropologici del difficile rapporto tra Stati Uniti e Messico, due mondi così vicini ma, in realtà, molto lontani, con l'uno a fare da colonizzatore e da sfruttatore e l'altro da vittima. Non stupisce, quindi, che autori quali Rodrigo Pla, Alfonso Cuaròn, Guillermo Del Toro e Alejandro Gonzalez Inarritu abbiano declinato il problematico rapporto USA-Messico nella narrazione dei rapporti tra mondi diversi, tra universo elitario, ma chiuso, e universo "popolare", ma aperto al nuovo ne La Zona (Rodrigo Pla); nella costituzione di un mondo favolistico ed immaginario in cui trovare evasione dalle brutture della vita (Il labirinto del fauno); nei rapporti cronologici tra passato-presente-futuro e nell'eterno ritorno del passato che non dimentica e perseguita (Alejandro Gonzalez Inarritu).

In modo particolare, il 51enne regista e sceneggiatore Alfonso Cuaròn, nei suoi film, è riuscito a delineare e a seguire un percorso stilistico e tematico coerente ed omogeneo, senza mai cadere nel banale o nel già visto. In quella che ribattezzeremo la  TRILOGIA DEL VIAGGIO (Y tu mamà tambièn, I figli degli uomini, Gravity), il regista messicano ha saputo sfruttare i meccanismi narrativi tradizionali di uno dei generi americani più classici, il road movie, che, dal 1969, con Easy rider di Dennis Hopper, è stato spesso utilizzato come metafora di un'erranza e di un cammino di ricerca interiore coincidente con il viaggio intrapreso dai protagonisti, che portasse ad una ri-nascita ed alla costituzione di un nuovo io. Genere iper-sfruttato di cui Cuaròn ha avuto il merito di allargare gli orizzonti tematici, intessendolo di ampi ed interessanti riferimenti filosofici, sfruttando il pensiero di autori quali Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger.
Tutti e tre gli episodi della Trilogia del viaggio sono caratterizzati da un viaggio, che diventa, man mano, sempre più mentale ed allegorico e che conduce verso se stessi, consentendo una ri-nascita e la costituzione di una nuova soggettività in rapporto al mondo fino a quel momento vissuto o da vivere da quel momento in poi. Ecco perchè, quando si parla del Cinema di Alfonso Cuaròn, è lecito parlare di cinema umanista ed antropocentrico.

Dopo aver diretto Solo con tu pareja e La piccola principessa ed essersi dichiarato profondamente deluso dall'esperienza americana di Paradiso perduto, Cuaròn è ritornato, nel 2001, in terra natìa per dirigere il dramma intimista Y TU MAMA TAMBIEN, incentrato sul viaggio (più che altro allegorico) che compiono due adolescenti, in compagnia di una cugina acquisita, per raggiungere l'immaginaria spiaggia di Boca del Cielo. Il periodo in cui l'adolescenza è agli sgoccioli è uno dei più interessanti da narrare, anche se il rischio di cadere nel ridicolo e nel racconto giovanilista è ben presente. Cuaròn riesce ad aggirare questo ostacolo, portando in scena un road movie (ambientato sullo sfondo di un Messico desolato e primitivo, quasi favolistico, nella cui delineazione, il regista messicano risente dell'influenza del realismo magico) in cui l'erranza autoreferenziale e autotelica del viaggio senza meta diventa oggettivazione della crescita interiore dei due giovani protagonisti, secondo i quali, la vita è fatta solo da effimere esperienze sessuali e alcooliche. Convinzioni che verranno teneramente scalfite dall'"inserimento", tra i due membri della coppia, di una donna più matura che traghetterà Tenoch e Julio verso l'età adulta e che li porterà a sperimentare una strana nostalgia e a diventare due sconosciuti, l'uno per l'altro. Il comportamento enigmatico di Luisa sarà chiaro soltanto nel finale, ambientato nella spiaggia di Boca del Cielo, in cui la donna si abbandona, in acqua, ad una nuova vita, trovando la morte come rinascita. Ecco che il regista messicano porta in scena due elementi cardine della sua riflessione filmica: l'acqua come elemento di catarsi, redenzione e di ri-nascita interiore e definitiva, ed il viaggio come strumento di dischiusione di un nuovo io.

E se in Y tu mamà tambièn, la carnalità è posta in primo piano, ed il raggiungimento della maturità è consentito tramite un percorso sessuale caratterizzato da varie tappe, ne I figli degli uomini si evitano scene sessuali, viene meno l'aspetto più "terreno", la catarsi è unicamente spirituale, il ritorno alla fertilità è consentito ma non tramite la costituzione di una nuova coppia. Presentato in anteprima alla 63esima Mostra del Cinema di Venezia, I FIGLI DEGLI UOMINI è tratto dall’omonimo romanzo di P. D. James.
Nell'ipotetico 2027, la razza umana è sull’orlo dell’estinzione perché da diciotto anni non nascono più
bambini e la scienza non riesce a capire quali siano le cause della dilagante infertilità. In una Londra infestata da frange nazionaliste violente che vorrebbero cacciare dall’Inghilterra tutti gli immigrati, Theo, ex attivista pacifico, ora semplice burocrate, si trova coinvolto con la ex moglie rivoluzionaria, Julian, nel salvataggio e nella protezione di una donna rimasta misteriosamente incinta, che potrebbe rappresentare un barlume di speranza per la continuazione della specie umana.
Ambientato in un futuro distopico, non molto lontano dal nostro, il film mette in scena, in una Londra disperata, anarchica e violenta, una tragedia per il genere umano. Sono passati diciotto anni dalla nascita dell’ultimo bambino, le scuole e i parchi sono vuoti, l’assenza di bambini ha trasformato il mondo in una no man’s land oscura, grigia, priva di ogni fede e speranza. Netta la contrapposizione tra benestanti e poveri: i primi continuano a vivere nelle loro enormi case, asettiche, piene di opere d’arte trafugate dai principali musei europei; i secondi vivono nelle strade, in un ambiente reso malsano dalla nascita di nuovi complessi industriali che rendono il panorama simile a quello dickensiano dell’industrial revolution, straordinariamente fotografato da Emmanuel Lubezki (direttore della fotografia di The Tree of Life, The New World e Birdman). Attentati si susseguono quasi quotidianamente e sembra che il silenzio ed il vuoto provocati dall’assenza di bambini siano stati colmati da rumori causati da raffiche di mitra ed esplosioni di bombe, simboli di un’umanità caduta irrefrenabilmente nell’abisso tragico, in un baratro di nichilismo ed anarchia. Gli immigrati vengono ghettizzati, rinchiusi in moderni campi di concentramento e sottoposti a varie torture, prima di essere espulsi. Il governo fornisce gratuitamente alla popolazione inglese il Quietum, un kit da suicidio. Si muove in questo contesto il protagonista Theo, (anti)eroe inconsapevole, che contribuirà in modo decisivo alla salvezza (?) del pianeta. Si noti come Theo non sia responsabile delle proprie azioni, ma agisca sotto i consigli della ex moglie Julian (nella prima parte del film) e spinto dal desiderio della giovane nera di salvare il proprio figlio (ironia della sorte, la speranza per una nuova umanità non viene da un’aristocratica english woman ma da una donna nera). Cuaròn ha anche il merito di aver costruito degli splendidi ritratti femminili, trasferendo nei suoi film il ruolo motore della donna nell’azione e nella narrazione (in Y tu mamà tambien, l'incontro con la donna porta i due giovani alla maturità; ne I figli degli uomini la donna gravida è circondata da un alone sacro, in Gravity, il compito di redimere l'umanità è affidato al personaggio interpretato da Sandra Bullock) tipico delle opere tarantiniane e almodovariane.
Il merito del regista sta nell’aver saputo creare un film fantascientifico privo di chissà quali effetti speciali che faccia riflettere sul presente proponendo una storia in un futuro di guerra, inquinamento, razzismo e violenza, decadimento del nostro presente. La tragedia che ha colpito l’umanità non è dettata da cause esterne, da un attacco alieno o da un cambiamento climatico repentino. Non è stata la natura a ribellarsi e a tradire l’uomo. Tale tragedia, come suggerito dal titolo, è figlia dell’uomo, che ha tradito e perso la propria natura. Cuaròn sembra volerci dire che l’uomo è diventato fin troppo apatico, distaccato e disinteressato all’amore e alle gioie quotidiane che ne derivano, attento solo allo sviluppo economico e al benessere materiale più che a quello psicofisico. «La faccenda dell'infertilità è solo un pretesto per il viaggio interiore e metafisico dell'eroe che passa da un atteggiamento apatico ad uno attivo» (Slavoj Zizek). 
La regia, caratterizzata da virtuosistici piani sequenza lunghi alcuni minuti, girati con telecamera a spalla (in alcune scene sporca di sangue) è ottima e funzionale alla storia. Spesso la macchina da presa segue il protagonista, come un inviato di guerra, trasformando il film in una sorta di documentario che acuisce il senso di incertezza e di claustrofobia. Notevoli sono gli ultimi venti minuti del film: il pianto di un neonato riesce a far bloccare momentaneamente gli scontri armati tra immigrati, esercito e dissidenti, non più abituati ad un tale prodigio della natura, e particolari sono i giochi di luce creati da Lubezki che fotografa in modo più luminoso le scene caratterizzate dalla presenza del neonato, simbolo della speranza ritrovata. E’arrivato un nuovo Salvatore? Non a caso, il gruppo attivista che protegge inizialmente la donna incinta è chiamato gruppo dei Pesci (termine di derivazione greca, ἰχθύς, acronimo di Gesù Cristo Salvatore figlio di Dio).
Un' ulteriore chiave di lettura può essere rappresentata dalla filosofia nietzschiana: in un mondo che gli uomini (gli uomini?) hanno reso inautentico, è necessario un annichilimento dei falsi valori tradizionali a favore di sentimenti dionisiaci, quantomeno autentici. Il bambino potrebbe quindi rappresentare l’Oltreuomo, profetizzato da Zarathustra, in grado di rifondare il mondo.

Il cast, in cui spiccano Clive Owen e Michael Caine, è ottimo e riesce a mettere in scena
la disperazione e l’emaciazione di questi uomini, vicini alla fine del mondo, alla loro fine. E’ difficile che un film catastrofico non sia trasformato in disaster movie e che ci sia un tale equilibrio: tutto merito del regista che ha saputo muovere in modo encomiabile la macchina da presa, ha scelto ottimi collaboratori tecnici ed ha saputo gestire un cast di prim’ordine ed una sceneggiatura che, forse, in 

mani altrui, avrebbe potuto dare risultati diversi. Il finale è enigmatico. Theo e Kee riescono a trovare una barca (secondo il filosofo Slavoj Zizek, è ottima la soluzione finale della barca, che non ha radici

e galleggia libera, condizione essenziale per il rinnovamento interiore) che li conduca alla nave Tomorrow. Le urla di bambini che accompagnano i titoli di coda che ci suggeriscono un ritorno del mondo al suo normale status, sono reali o rappresentano gli ultimi ricordi di un mondo ancora felice del morente Theo?
Qui, il rinnovamento passa attraverso la costituzione di una famiglia divina, con Theo (nomen omen), Kee (moderna Maria) ed il neonato Oltreuomo, con la barca che traghetta verso una nuova condizione esistenziale.



Un'angosciante e solitaria odissea di due soli personaggi isolati nello spazio, dalla durata complessiva di 92 minuti, con un piano sequenza iniziale di 17 minuti e 156 piani totali che stridono fortemente con i 1000/2000 richiesti, di solito, per realizzare un blockbuster del genere. Questo, e molto altro ancora è GRAVITY, che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Alfonso Cuaròn, che ha presentato, fuori concorso ed in anteprima mondiale, la sua ultima fatica, in apertura alla 70esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Per Cuaròn si tratta di un dolce ritorno al Lido: il regista di La piccola principessa e Harry Potter e il prigioniero di Azkaban aveva già presentato in Laguna i suoi precedenti lavori Y tu mamà tambien e I figli degli uomini, che aveva fruttato al direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, suo fido collaboratore, una più che meritata Osella al miglior contributo tecnico. 
Protagonista di Gravity è l'astronauta Ryan Stone, interpretata magistralmente, contro ogni aprioristica previsione, da un'androgina Sandra Bullock, che ha il pregio di reggere il film interamente sulle proprie spalle per più di un'ora, e che, affiancata da Matt Kowalski-George Clooney, lavora ad una serie di riparazioni di una stazione orbitante nello spazio. All'improvviso, una catena di sfortunati eventi imprevisti e di effetti collaterali scaraventa contro i due personaggi una tempesta di detriti che distrugge la loro stazione orbitale, eliminando ogni collegamento con Houston e lasciando i due astronauti a vagare da soli nello spazio e a cercare un modo per tentare il rientro sulla Terra.
La catena di imprevisti che ha colpito il film sembra, ironicamente, assai simile a quella che rende difficile i 90 minuti nello spazio alla dottoressa Stone: dopo cinque anni di lavoro, cambio di Studio (Cuaròn e il figlio Jonas avevano proposto la sceneggiatura, che, alla fine è stata acquistata dalla Paramount, alla Universal), svariati rifiuti e spostamenti progressivi del cast (il copione è stato proposto a Robert Downey jr., Angelina Jolie, Natalie Portman e Marion Cotillard), esce il film che entra di diritto tra le pietre miliari del cinema di fantascienza, con cui, volenti o nolenti, tutti i registi che gireranno d'ora in poi film di questo genere dovranno più o meno confrontarsi. 
L'affascinante incipit è un colpo al cuore: un lungo piano sequenza di 17 minuti, in cui la macchina
da presa, come fosse un vero e proprio oggetto di scena inserito in quel determinato momento in quel determinato contesto, danza in uno spazio privo di forza di gravità, gettandoci, anche per merito di una martellante colonna sonora, nell'universo angosciante del film. Straordinari sono i movimenti ondulatori e rotatori della cinepresa di Cuaròn e l'illuminazione in controluce di Emmanuel Lubezki, bravissimi nel valorizzare oltremodo la profondità di campo e nel distillare nel corso del film una dose di angoscia e di suspense che rendono Gravity sconsigliato agli agorafobici ed ai claustrofobici. Perchè, ciò che fa paura non è solo l'enorme buco nero dello spazio sconfinato, ma anche il sicuro cantuccio "domestico" dell'astronave, che non si rivelerà come un luogo in grado di proteggere l'astronauta Stone e di assicurarle il ritorno a casa. Secondo Alfonso Cuaròn: «C’è voluto del tempo e la sfida più grande era riuscire a far abituare tutto il cast, dai disegnatori fino agli attori, a pensare in una modalità differente. Il nostro cervello è abituato a ragionare in un ambiente gravitazionale mentre qui dovevamo cercare di descrivere al meglio uno spazio dove tutto risulta privo di pesantezza. Non abbiamo certo realizzato un documentario ma il nostro intento era quello di riuscire ad assorbire al meglio l’atmosfera di vuoto data dall’universo, per farla confluire poi all’interno dei personaggi. Questi ultimi vivono continuamente la metafora dello spazio: un gioco al massacro tra vita e vuoto, senso di morte e rinascita.»

Più che su un'odissea spaziale, Gravity è un'opera filosofica incentrata sull'odissea che vive ogni singolo essere umano durante la propria vita, continuamente bersagliata da detriti fatti non di materiale spaziale, ma di drammi personali, sconfitte, rinunce. Ecco che, a tal proposito, come ha ammesso il co-sceneggiatore Jonas Cuaròn, la genesi del film è caratterizzata da un doppio binario, da un lato, un percorso fatto di suspense, dall'altro una riflessione sulla vita mediante la terrificante solitudine dei due protagonisti. Il tutto perfettamente orchestrato da una sceneggiatura caratterizzata anche da improvvise sferzate di umorismo che alleggeriscono momentaneamente la situazione, e che stimola una piena identificazione spettatoriale, coinvolgendo sinesteticamente gli spettatori. Lo spazio, nel film di Cuaròn, è un non-luogo metafisico, mistico e straniante, che fa da apripista e da preludio ad un inevitabile cambiamento che non può non arrivare e che, qua, riguarda il personaggio interpretato da Sandra Bullock, donna dalle fattezze maschili, colpita, in passato, da un evento tragico che, ora, trova la sua più terrificante proiezione nell'oscura solitudine spaziale, che si configura come uno spazio fantasmatico che diventa oggettivazione dei traumi e dei dubbi personali, luogo di lotta tra la vita e la morte. Ed è proprio nel momento di massima sofferenza, abbattimento e delirio mentale,
di completo nichilismo e di sfiducia nei confronti del proprio passato, che l'uomo deve affermare la propria dignità, e che Ryan Stone è pronta a riscrivere il libro della propria vita, o meglio ancora, ad accettare, con un nuovo punto di vista, ciò che quel libro le ha riservato. Monumentale, a tal proposito, l'omaggio a 2001 Odissea nello spazio, con il piano in cui il corpo della Bullock (il Bambino delle Stelle) rotea placidamente in posizione fetale all'interno dell'astronave-grembo materno (che qui si rivela come uno spazio ostile che non può più proteggere dalle intemperie del mondo esterno), anticipando la rinascita e la nuova consapevolezza di sè tramite una serie di tappe che accompagnano la donna Ryan Stone (non più astronauta, semplicemente, essere umano) nel cammino dall'humus alla conoscenza. Il viaggio nello spazio è, qui, inteso come viaggio alla ricerca di un nuovo sè, come proiezione dell'ente individuale verso una nuova nascita che non può che avvenire in un territorio altro, oscuro, ostile, inesplorato, insensato, lontano dall'ipersemiotizzato universo terrestre.
Qui, e ne I figli degli uomini, l'Uomo si rivela tale in quanto dotato della possibilità di scelta, non è più l'heideggeriano e arrendevole essere per la morte che precede la nietzschiana ri-nascita del bimbo-oltreuomo profetizzata ed accompagnata da Zarathustra-Theo-Clive Owen, che qui trova il suo corrispettivo in Matt Kowalski-George Clooney, in grado di andare oltre e di non dare altri significati ad una nascita se non, appunto, quello essenziale di nascita, al di là del fatto che si tratti della venuta al mondo di un nuovo Salvatore in grado di salvare il mondo dal baratro di valori in cui è precipitato, tramite un sacrificio che porta all'aborto del vecchio ed inautentico sé.
E, ancora una volta, come in quasi tutti i film di Alfonso Cuaròn, il regista messicano focalizza l'attenzione sul viaggio e sull'acqua. In Y tu mamà tambien, il finale si svolge nella spiaggia di Boca del Cielo (che viene raggiunta dopo un lungo viaggio in auto), che è più un luogo mentale che un luogo vero e proprio, il luogo del giudizio, che, con la scomparsa tra le acque della protagonista femminile, trasporta i due giovani personaggi interpretati da Diego Luna e da Gael Garcia Bernal dall'adolescenza all'età adulta, tramite un inaspettato incontro con la morte, che sancisce anche la fine della loro lunga amicizia. Ne I figli degli uomini, la ri-nascita del genere umano è affidata ad un'esile barca che trasporta la donna nera ed il suo cocchiere alla ben più grande e stabile nave Tomorrow che dovrebbe, a sua volta, condurre l'umanità verso una nuova vita.
Applausi a scena aperta per Cuaròn che è riuscito, ancora una volta, a dirigere un film usufruendo dei meccanismi di genere e rielaborandoli in chiave filosofica, ha saputo mettere in scena un ipotetico (ed illusorio) viaggio mentale-cammino verso la conoscenza e la piena consapevolezza di un nuovo sè, sfruttando al massimo i meccanismi di una sceneggiatura tradizionale e del 3D che funzionano perchè ancorano saldamente lo spettatore alla storia e lo gettano nell'angoscioso vortice oscuro dell'infinito spazio della nostra esistenza.



In conclusione, è possibile affermare che, in ogni suo film, il regista messicano Alfonso Cuaròn, anche quando si è dovuto scontrare con le logiche produttive delle major, è riuscito a perseguire un coerente progetto stilistico e narrativo incentrato sul viaggio iniziatico ed allegorico di un personaggio, dal deserto dei sentimenti fino al giardino della rinascita universale, in cui il cambiamento del singolo si pone come primo passo per un cambiamento collettivo.

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