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mercoledì 29 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA

di Matteo Marescalco


Due anni dopo aver diretto l’incompiuto e vacuo “This must be the place”, Paolo Sorrentino torna dietro la macchina da presa con il film “La grande bellezza”, presentato in concorso alla 66esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes. Il film è la quinta pellicola su sei realizzate dal regista ad essere presente al Festival francese.
Protagonista è Jep Gambardella, autore di un solo romanzo, “L’apparato umano”, scritto in giovinezza.
Jep si muove tra feste cafone e barocche fino al parossismo, attorniato da una vasta gamma di tipi umani che si configurano come supporto fantasmatico, come specchio deformante e capovolto dello stesso personaggio interpretato da Toni Servillo e della città di Roma (rappresentando quasi l’oggettivazione della sua anima nera), vera protagonista della pellicola.
Dopo essere arrivato a Roma in giovane età, Jep è lentamente finito nel vortice della vita mondana capitolina, fino a trasformarsi nel re dei mondani, nel suo mefistofelico dominatore (a tal proposito, notevole è l’entrata in scena di Jep, trasformato dall’imponente Servillo in una creatura dallo sguardo luciferino, presentato tramite una lunga carrellata di personaggi, chiusa dall’introduzione del personaggio sorridente al ralenti e con una sigaretta stretta tra i denti. La macchina da presa comincia a svolazzare roteando e in un fluido movimento all’indietro ribalta la prospettiva e capovolge il quadro, presentandoci un’inquadratura rovesciata di gente che balla e si diverte, configurandosi, quindi, come una sorta di corrispettivo fantasmatico della Capitale diurna). In occasione del suo 65esimo compleanno, il tuttologo Jep si rende conto di aver vissuto una vita frivola, vana, e di “non poter più perdere tempo a fare cose che non gli va di fare”.
La prima macro sequenza de “La grande bellezza” si apre con un coro di donne che accompagna e puntella l’improvviso infarto di un turista asiatico stroncato davanti alla magnificenza di una città talmente bella da uccidere.
La seconda macro sequenza è ambientata all’interno di una discoteca romana dove Jep e i suoi amici stanno festeggiando il suo compleanno. L’una fa da contraltare all’altra.
Alla portentosa bellezza visiva dei primi cinque minuti, in cui Sorrentino sfoggia tutta la propria onanistica bravura nel muovere la macchina da presa, tra dolly e carrellate varie al limite di una danza paradisiaca, succede un cambiamento di ambientazione, con il regista napoletano che mette in scena l’esatta antitesi della Roma “luminosa”, il suo spettro, concentrandosi sulla dicotomia luce/oscurità, animus/anima, angelico/diabolico, elementi che convivono come due oggetti antitetici e contrastanti ma pur sempre complementari nella stessa persona, nella stessa città.
Anzi, è lo stesso Jep Gambardella ad innalzarsi metaforicamente al ruolo di rappresentante della città di Roma, custode della sua anima, ad incarnare i suoi pregi e difetti, le sue dicotomie contraddittorie, la sua grande bellezza unita allo squallore degli uomini miserabili che vi abitano, “gli incostanti e sparuti sprazzi di bellezza che si nascondono”, però, “sotto il chiacchiericcio inconsistente”, il suo grandioso passato sfociato in un decadente, volgare e scabroso presente.
L’intero film è giocato sulla dicotomia dei contrasti in un gioco strabordante ed eccessivo, a partire da quelli tra la musica house remixata e la colonna sonora solenne, tra personaggi vuoti, ignavi, inconsapevoli di ciò che sono realmente (fingono di essere inconsapevoli, in realtà, sono fin troppo coscienti del loro artifizio), e il monumentale e sacro contesto in cui sono immersi, tra arte del mondo passato e arte contemporanea, contro cui Sorrentino si scaglia ferocemente, decadenza e morte della geniale ed ispirata creazione artistica.
La grande bellezza” è la metafora dell’attuale società italica, divisa tra il grottesco contemporaneo e la sublimità del passato, alla costante ricerca di uno sprazzo di bellezza che può essere ritrovato solo nel tempo che fu, ormai morto. Altro tema fondamentale del film è proprio quello del tempo, della decadenza come elemento insito alla condizione umana, e della morte, non a caso la sceneggiatura è caratterizzata da una struttura circolare che posiziona all’inizio e alla fine un episodio di morte.
Jep è rimasto ancorato ad un passato idealizzato, mai vissuto autenticamente nella sua vita, con il risultato di un lento ed inevitabile incedere peccaminoso verso la morte; il futuro, in quanto decadenza del passato, ha un unico sfocio. Sembra non esserci via di scampo per l’individuo umano, costretto alla mera vanitas ed all’ inconsistenza dell’esistenza.
Paolo Sorrentino ha girato un film ipertrofico a livello visivo, splendidamente fotografato da Luca Bigazzi (collaboratore, tra gli altri, di Silvio Soldini), che sfrutta dolly, carrellate e furiose e consistenti immagini affezione per appropriarsi dello spazio filmico e dei pensieri e delle psicologie dei personaggi. Lo stile registico di Sorrentino è indubbiamente ridondante, auto celebrativo e compiaciuto, ma non vedo come possa porsi da ostacolo allo sviluppo di una narrazione che, in realtà, è  inesistente perché basata sul nulla, sulla vacuità.
“La grande bellezza” è un film che farà discutere, monumentale, grandioso, e, probabilmente, trova proprio in questa sua gigantesca “stazza” una serie di limiti dovuti all’eccessivo proposito sorrentiniano di fare un film sul nulla, di criticare senza abbattere né scalfire, da amare o da odiare, da prendere o lasciare. Niente mezze misure.
Che ben vengano prodotti del genere, tecnicamente curati fino allo sfinimento, in grado di trasportare lo spettatore, anche grazie agli elaborati movimenti di macchina, all’interno dello spazio scenico in cui si muovono i personaggi del film, e di trasformarlo in un giocattolo buttato per caso, come i personaggi finzionali, in un mondo vano, in un’epoca vana. E’ stata di cattivo gusto, al limite del kitsch gratuito ed immotivato, una delle sequenze finali, ambientata sulla terrazza dell’appartamento di Gambardella, con uno stormo di fenicotteri fallimentarmente ricreato in CGI.
Particolarmente interessante è la riflessione sull’inganno e sui trucchi di magia (nella sequenza della sparizione della giraffa), che si pone come metalinguistica, allargando il proprio campo alla potenza del mezzo cinematografico come creatore di artifizio e finzione. “La grande bellezza” è un film indubbiamente imperfetto, ma che trova vitalità nelle sue deficienze, assomiglia ad un treno che gira, gira, gira, ma non sa dove vuole andare a parare. A tal proposito, una battuta di Jep Gambardella può riferirsi all’intero film: “ Ah, i nostri trenini sono i più belli di tutti. E sai perché? Perché non vanno da nessuna parte”.

Voto: ★★★★