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lunedì 30 dicembre 2013

TOP TEN e FLOP TEN 2013

di Matteo Marescalco

Ecco. Come ogni fine anno che si rispetti, è arrivato il tempo di fare classifiche. E, vi assicuro, non c'è cosa più inutile e divertente che classificare quanto visto o letto durante l'anno appena trascorso. Lo ammetto, stilare classifiche è sempre stata una mia mania, ricordo ancora quanto tempo ho trascorso (e trascorro tuttora), nel corso degli anni, a ordinare e riordinare la mia collezione di dvd originali e i libri che tengo nella libreria di casa mia. E, in fin dei conti, ordinare equivale a fare una classifica: classificare i propri film in ordine alfabetico, per autore, genere, anno di produzione. O, semplicemente, per colore di copertina (ahimè, ho provato anche questo dubbio stile di classificazione dall'originale gusto estetico). Classificare (quindi ordinare) dà una sensazione di "potenza" e di controllo assoluto, è strettamente connesso all'attribuzione di un senso al caos totale.
Vabbè, ma che ve frega a voi di queste lagne. Beccatevi le mie Top ten e Flop ten del 2013. E ricordate, le mie classifiche sono come i trenini delle feste di Jep Gambardella: sono le più belle di tutte ma, in fin dei conti, non vanno da nessuna parte.
P.S. Se volete farvi del male e siete interessati alla recensione del film in classifica, basta cliccare sul titolo.

TOP TEN 2013
5) Her di Spike Jonze
6) Why don't you play in hell di Sono Sion
8) Las brujas de Zugarramurdi di Alex de la Iglesia
9) La moglie del poliziotto di Philip Groning
10) Noi siamo infinito di Stephen Chbosky

FLOP TEN 2013
1) Holy motors di Leos Carax
3) Another me di Isabelle Coixet
4) Tir di Alberto Fasulo
5) La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
6) Kill your darlings di John Krokidas
7) The wind rises di Hayao Miyazaki
8) The Zero Theorem di Terry Gilliam
10) Tracks di John Curran




martedì 24 dicembre 2013

I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY

di Matteo Marescalco
 
Walter Mitty (n.): "An ordinary and timid person who indulges in fantastic and adventurous daydreams of personal triumphs".

Dopo Giovani, carini e disoccupati, Il rompiscatole, Zoolander e Tropic Thunder, Ben Stiller torna dietro la macchina da presa per realizzare la trasposizione di un breve racconto del vignettista ed umorista americano James Thurber, I sogni segreti di Walter Mitty, già portato sullo schermo da Norman McLeod nel 1947.
Il protagonista del film, Walter Mitty, è il tipico uomo comune, conduce una vita anonima e da ben 16 anni è responsabile dell'archivio fotografico della rivista Life, è innamorato di una donna con cui non ha il coraggio di dichiararsi e si incanta e sogna ad occhi aperti effettuando soventi viaggi di fantasia. Un giorno, quando arriva la notizia della chiusura della versione cartacea di Life a favore di quella online (ad opera di un gruppo di rottamatori immaturi ed ignoranti), e si pone il problema della realizzazione della copertina dell'ultimo numero, Sean O'Connell, uno dei più grandi fotografi di sempre, invia a Mitty il negativo della foto che ha definito ritraente la quintessenza della vita. Negativo che, tuttavia, viene dato per disperso. Sarà proprio Walter, che durante la sua vita non è mai uscito dal suo rassicurante e cadenzato ritmo quotidiano, eccetto che nei suoi sogni ad occhi aperti, ad andare alla ricerca del fotografo e del negativo, in un'avventura al di là di ogni sua fantasia.
The secret life of Walter Mitty, questo è il titolo originale del film, rappresenta l'approdo all'età adulta e alla maturità per Ben Stiller che, già, nella parodia di guerra, Tropic Thunder, aveva dato prova di una piena consapevolezza dei meccanismi simulacrali che dominano il mondo del cinema hollywoodiano, e che, qui, sveste la sua tipica maschera da commedia demenziale a favore di una più orientata verso uno spiccato atteggiamento drammatico e nostalgico che non lesina comunque trovate ironiche e che ben si adatta al ritmo complessivo del film che si sviluppa su vari livelli di lettura. La quinta regia di Stiller, che ha dato anima e corpo a Walter Mitty, anche per quanto riguarda i costi di produzione che si sono aggirati intorno ai 90 milioni di dollari (una cifra notevole per un film del genere), può innanzitutto essere definita come un romanzo di formazione incentrato su una detection on the road, la ricerca della #25, la venticinquesima foto dell'ultimo rullino inviato da Sean O'Connell, interpretato da Sean Penn che incarna, con il suo volto scavato e profondamente invecchiato, la figura di un fotografo freelance che ha completamente indirizzato la propria vita alla sua passione ("Vedere le cose a migliaia di chilometri di distanza, le cose nascoste dietro le pareti e

all'interno di una stanza, cose pericolose da raggiungere...per poi restare stupiti", come recita il motto di Life), in continui viaggi alla ricerca di attimi irripetibili, consapevole, tuttavia, che ciò che è veramente bello non può essere catturato, ma deve essere semplicemente osservato senza l'interposizione dell'obiettivo della macchina fotografica. O'Connell scatta ancora fotografie su pellicola, è un idealista, come Walter Mitty, che si occupa, nel suo impiego, della gestione dell'intero archivio fotografico di Life, "custode" di un immenso patrimonio di ricordi consistenti e palpabili, di un archivio che è lontano anni luce dalla smaterializzazione digitale dell'immagine fotografica, idealista come Ben Stiller, che ha girato questo film su pellicola e che ha dichiarato, nella conferenza stampa che si è tenuta venerdì 13 dicembre a Roma che, visto il tema trattato nel film, non avrebbe potuto fare altrimenti, fissando come fine programmato del film un atto d'amore nei confronti dei vecchi metodi di ripresa. Perchè I sogni segreti di Walter Mitty è, e questa è un'altra chiave di lettura, un film profondamente metacinematografico che si interroga, alla maniera del recente Her di Spike Jonze e di Avatar di James Cameron, sul passaggio del Cinema dalla tecnologia analogica a quella digitale e, soprattutto, sul modo in cui possono sopravvivere le relazioni umane all'epoca dei social network, in cui si è soli in mezzo alla gente. E, se Her e Avatar individuavano nella voce e nell' immagine affezione dell'occhio (elemento metacinematografico per eccellenza) degli elementi peculiari alla
condizione e agli affetti umani, il Walter Mitty di Ben Stiller individua nella mente umana creatrice-regista dei propri sogni la base da cui partire per dare il via alla riscossa e ad un deciso cambio di rotta in vite sempre più attraversate dalla più comune indifferenza. Oltre ad essere un sentito e commosso atto di amore nei confronti della pellicola e dei supporti fotografici "cartacei", questo film tratta anche il problema del mondo del lavoro e dei licenziamenti, orchestrati da una politica di giovani descritti come completi idioti che non conoscono il reale valore del passato. Ed è in questo che, probabilmente,  il film pecca di una lieve dose di infantilismo ed ingenuità, nell'andare ad individuare nella modernità e nel progresso digitale ed informatico, con fin troppa facilità, il seme di ogni male e nella tecnologia un ostacolo ai rapporti reali. I sogni ad occhi aperti vengono quasi sempre trattati da Ben Stiller come la base da cui partire, elementi che consentano l'avvio di una determinata azione, anche se sappiamo che nella realtà non sempre ciò è possibile.
A livello stilistico ed estetico, a spiccare sul resto del film, che non eccelle in raccordi di montaggio e che, man mano che va avanti si fa sempre più sfilacciato a livello diegetico, perdendo in compattezza ed organicità del corpus narrativo, è la prima mezz'ora, caratterizzata da sequenze ordinate in modo geometrico con particolare rigore nella disposizione dei corpi nel profilmico e da un'assoluta corrispondenza tra forma e contenuto: le scene ambientate in un contesto reale sono girate con camera fissa e monotone carrellate, i sogni ad occhi aperti, invece, sono ripresi in modo molto più dinamico ed esaltante e non esiste un vero e proprio elemento scatenante che fa capire allo spettatore il passaggio dalla realtà all'elemento onirico, passaggio che avviene lentamente grazie, per l'appunto, ai lievi aggiustamenti stilistici di cui detto
sopra. Con l'incedere della pellicola, aumentano a dismisura le sequenze che raffigurano meravigliosi ambientazioni paesaggistiche che sembrano uscite direttamente da Into the wild (ironia della sorte, Walter Mitty incontra il personaggio interpretato da Sean Penn nel bel mezzo delle terre selvagge) e di cui si ha la netta sensazione che sopperiscano alla mancanza di altri elementi ben più importanti e decisivi. La finale entrata in gioco della provvidenza orienta il film verso un'overdose di buonismo con una decisa virata verso un didascalismo che lascia con un filo di amaro in bocca, viste le precedenti premesse (e promesse). Ciò che colpisce maggiormente lo spettatore sono le musiche e la complessiva bellezza visiva difficile da estinguere, che proiettano immediatamente il lungometraggio di Stiller nel proprio immaginario e fanno dimenticare la debolezza diegetica in un'esaltazione del potere salvifico dei sogni. In definitiva I sogni segreti di Walter Mitty è il tipico film dai buoni sentimenti, attraversato da una serie di difetti strutturali ben visibili ma che, tuttavia, non gli impediscono di ancorarsi saldamente al cuore e di non lasciarlo per molto tempo. Perchè il mondo può apparire diverso, più bello e più autentico, se, per citare la Space Oddity di David Bowie che fa parte della soundtrack del film, lo si guarda dall'alto della propria immaginazione "stellare" con gli occhi fanciulleschi di Walter Mitty.

Voto: ★★★1/2

mercoledì 18 dicembre 2013

PIOVONO POLPETTE 2

di Matteo Marescalco

Piovono polpette 2 è un film d'animazione digitale diretto da Cody Cameron e Kris Pearn, sequel di Piovono polpette, uscito nelle sale cinematografiche nel 2009 e diretto da Phil Lord e Chris Miller.
Il film riprende da dove erano stati lasciati i medesimi personaggi del precedente episodio, ed è incentrato principalmente su Flint Lockwood che viene contattato dal suo idolo Chester V., che lo vuole arruolare nella sua The Live Corp Company, società che si muovein campo digitale ed informatico e che vanta al suo interno i migliori scienziati in circolazione. La Live Corp Company è stata incaricata di ripulire l'isola dal disastro alimentare causato da Flint e dai suoi amici, costretti ad abbandonare la città di Swallow Falls, dopo che una creazione del giovane scienziato, il Replicatore di Cibo Super Mutante Diatonico Dinamico di Flint Lockwood (abbreviato, per comodità, in R.C.S.M.D.D.F.L.) aveva trasformato l'acqua in cibo, causando una vera e propria tempesta alimentare. Quando Flint, tuttavia, scopre che la sua invenzione tecnologica è ancora attiva e sta creando strani esseri animali-alimentari senzienti, decide di tornare, in compagnia dei suoi immancabili amici, a Swallow Falls, per salvare nuovamente il mondo.
Piovono Polpette 2 è un viaggio nel mondo delle creature selvagge che è fortemente influenzato da alcuni classici dell'intrattenimento cinematografico e letterario quali Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne, Jurassic Park di Steven Spielberg fino al più recente Avatar di James Cameron. Il mondo in cui piomba la nostra compagnia di eroi è un universo dai colori saturi ed ultra pop, caratterizzato nei minimi dettagli grazie ad un'animazione abbastanza fluida che è orientata a rendere l'aspetto caricaturale e grottesco della situazione più che ad una fedele ricostruzione mimetica dell'ambiente naturale. Su tutti i personaggi spicca l'ampia gamma della fauna alimentare locale creata dall'invenzione di Flint Lockwood, il R.C.S.M.D.D.F.L., che ha dato vita ad incroci tra cibo ed animali, tutti in grado di provare emozioni.
Il nucleo principale della narrazione è costituito da due temi fondamentali, la caduta dei propri eroi e la fine di un sogno ed il conflitto tra la wilderness degli abitanti nativi e la civilization dei rapaci coloni. Chester V., proprietario della Live Corp Company, è sempre stato una figura fondamentale per Flint, il suo mentore e punto di riferimento da cui prendere spunto per le proprie invenzioni, modello a cui ispirarsi per ambire al raggiungimento di importanti traguardi. Chester, tuttavia, non si rivela ciò che Flint pensava, è, in realtà, un uomo malvagio e avido pronto a tutto pur di rubargli la sua invenzione, così da poter creare un nuovo brand di cibo in grado di rafforzare ulteriormente la propria immagine che cura con assoluta dedizione come unica realtà fondamentale. E' indubbio che con la figura di Chester V. Piovono polpette 2 abbia preso di mira i potenti nell'epoca informatica e abbia creato uno Steve Jobs tutto dedito alla creazione e al mantenimento della propria immagine come supporto pubblicitario delle sue creazioni informatiche. La prima parte del lungometraggio

 

risulta più riuscita rispetto alla seconda parte perchè non si prende sul serio ed ironizza in modo ben preciso ma pur sempre goliardico e fracassone su obiettivi ben definiti: risultano molto divertenti le sequenze in cui vengono presi di mira la Silicon Valley e i tic e le fisse degli scienziati, descritti come dei bambini un po' troppo cresciuti.
Per il resto, Piovono polpette 2 risente della presenza di personaggi eccessivamente standardizzati e poco approfonditi, di situazioni già viste (il contrasto tra Flint e il bullo che lo prendeva in giro quando era bambino, ora pentitosi e facente parte della sua compagnia di amici), trovate comiche che non strappano la risata neanche ai bambini più piccoli ed animazione a tratti eccessivamente stereotipata. La riuscita del lungometraggio della Sony resta ben ancorata alle singole gag disseminate nella parte iniziale del film più che al compimento di un corpus unitario che sia stato complessivamente ben sviluppato e gestito. In definitiva, Piovono polpette 2 è il tipico film di puro intrattenimento che tenta la trattazione di alcuni temi impegnati ma di cui si ha la sensazione che sia stato organizzato a tavolino, in modo che tutto risulti assolutamente ordinario, orientato verso la piena risoluzione degli eventi, volta ad offrire allo spettatore un mondo in cui tutto è stato riportato alla tranquilla situazione iniziale.

Voto: ★★1/2

martedì 3 dicembre 2013

ONLY LOVERS LEFT ALIVE

di Matteo Marescalco
Tra gli autori americani che hanno operato distanti dalle tendenze del cinema hollywoodiano più standard ed omologato e hanno tentato di imprimere alla loro filmografia un carattere alternativo ed off-Hollywood, un ruolo di primo piano è rivestito da Jim Jarmusch, autore di pellicole quali Strangers than Paradise, Coffee and cigarettes, Daunbailò, Dead man ed Only lovers left alive, presentato in concorso alla 66esima edizione del Festival di Cannes e, di recente, all'ultimo Festival di Torino. Portavoce di uno stile moderno, antinarrativo, minimalista (la poetica dell'attenzione alla vita quotidiana) e non teleologico, incentrato su personaggi incompiuti, hipster, disfattisti, sui tempi morti, sui silenzi e sugli sguardi rivelatori delle emozioni umane, Jarmusch, come Wenders, in una perfetta coincidenza tra contenuto e forma, ha sempre dato particolare importanza all'architettura degli ambienti e degli spazi in cui sono immersi i drammi dei protagonisti dei suoi film, luoghi che sono espressione dello stato d'animo degli individui, incapaci (perchè nolenti o impotenti) di evolversi e di rinnovarsi, condannati ad un torpore cerebrale senza via d'uscita.

Only lovers left alive è una storia romantica, incentrata su Adam, musicista underground che vive a Detroit e che si nasconde dal mondo, conducendo una vita prevalentemente notturna, e su Eve, sua moglie, che vive a Tangeri. La loro storia d'amore dura da secoli, entrambi, infatti, sono vampiri che cercano nell'isolamento e nelle tenebre la salvezza da un mondo volgare che giudicano giunto al capolinea. 

Jarmusch, qui al suo dodicesimo lungometraggio, rilegge e rielabora il genere horror-sentimentale (come aveva fatto con il western in Dead man e con il gangster movie in Ghost dog), sfruttando una delle figure più icastiche ed inflazionate del cinema di questo genere, il vampiro, che, sul grande schermo e nella letteratura, ha sempre assurto al ruolo di entità corporea dotata di una particolare carica perturbante ed erotica, ed utilizzando il vampirismo come mero pretesto per accostarsi alla decadenza della civiltà contemporanea. A differenza del primo vampiro della storia del Cinema, il Conte Orlok, protagonista del Nosferatu di Murnau, individuo macchinico e statico, dall'aspetto privo di grazia, in preda ad una vera e propria regressione maligna, i vampiri di Jarmusch sono delle creature bellissime, eleganti, gli ultimi veri bohémienne, amanti, dell'arte, della letteratura, della musica, e, paradossalmente, soprattutto della vita. Il regista statunitense assegna al vampiro il ruolo di ultimo faro protettore della bellezza e della carica emotiva nel mondo, in un'umanità giunta alla fine, persa in una routine quotidiana omologante e standardizzata.
Fin dalla prima macrosequenza, lo spettatore è gettato nel vortice sinfonico seducente ed ipnotico del film. Only lovers left alive inizia con l'inquadratura del cielo stellato che, lentamente, comincia a ruotare (in pieno accordo alla teoria dell'entanglement quantistico che viene citata da Adam) e a lasciare il posto, grazie ad un'abile operazione di montaggio delle attrazioni e di dissolvenza incrociata, ad un vinile che gira, il cui movimento, infine, sfocia nel moto rotatorio della macchina da presa che presenta, tramite montaggio alternato, i due amanti, le due particelle che, anche se distanti, reagiscono entrambe a qualsiasi 

fenomeno fisico che abbia colpito una di esse, postulando il fenomeno della relazione a distanza. Ad innalzare ulteriormente il livello di perfezione formale del lavoro sull'immagine filmica concorrono l'attenzione plastica ai corpi dei vampiri che vengono, in genere, inquadrati in pose scultoree, e le differenti tonalità cromatiche della fotografia: si va dal melanconico giallo ocra che viene irradiato dall'atmosfera di Tangeri, ai colori più freddi e scuri di Detroit, in cui, comunque, permane una nota ocrata che destabilizza lo spettatore e contribuisce ad alimentare l'incubo onirico e regressivo in cui sembrano essere precipitate le due città. In tutto ciò vi è una piena identità tra forma e contenuto: alla figura perturbante e tradizionalmente "equivoca" del vampiro corrispondono, infatti, una serie di inquadrature ricercate e particolari, con l'occhio meccanico della macchina da presa che non si accosta mai al visibile da posizioni scontate ma lo fa scegliendo di relazionarsi con la realtà tramite una serie di piani a strapiombo e sequenze riprese dall'alto, come fosse un osservatore che commisera con pessimismo ed una punta di tenerezza la decadenza del mondo, insita nell'umana condizione. Fondamentale è il trattamento dei luoghi, siano essi esterni o interni. Il mondo esterno è in piena decadenza, Detroit è una città fantasma ripresa unicamente di notte (l'oscurità come supporto fantasmatico della luce, notte in contrapposizione al giorno, allegoria del periodo di massimo splendore e slancio culturale dell'umanità), popolata da zombie (con tale appellativo i vampiri definiscono gli umani, statici morti viventi in preda all'omologazione societaria romeriana, capaci di far decadere ciò che sono stati in grado di realizzare lungo i secoli); in questo contesto, gli unici mondi veramente vivibili sono le case in cui abitano Adam ed Eve (fari luminosi e numi tutelari nel

buio della notte), luoghi in cui collezionare le reliquie della Storia, oggetti fondamentali per chi ha vissuto (e, soprattutto, amato) attraverso i secoli. 

Persino il sangue umano non è più puro come una volta, rendendo quasi impossibile l'esistenza dei vampiri freaks e borderline rimasti in vita, in una corrispondenza tra vampirismo e arte, in cui gli esseri della notte si nutrono di cultura, linfa vitale (una volta) anche per l'essere umano. E non è assolutamente un caso che i due vampiri si chiamino Adam ed Eve: nonostante il nome che portano, tuttavia, è impossibile persino l'ipotesi di una redenzione da compiere per l'umanità, di una catarsi che restituisca a tutti l'age d'or del mondo. Vi è più vita nei vampiri che negli esseri umani, perchè i primi sono mossi da interesse, da furor erotico (nei confronti di qualcuno, dell'arte, della letteratura, della musica) che fa loro amare la vita. Ed è talmente forte l' attaccamento alla vita, da far loro subsumere la razionalità all'istinto (non per disinteresse, come per gli umani) e a spingerli a regredire e a compiere un'azione che verrà definita da XV secolo, pur di continuare a vivere. 
In nome dell'amore.

Voto: ★★★★★

martedì 19 novembre 2013

SNOWPIERCER

di Matteo Marescalco

"Se vuoi un'immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano, per sempre." (George Orwell)

Anno 2014. La razza umana, ormai al collasso a causa dell'eccessivo surriscaldamento globale, inventa un agente chimico per refrigerare l'atmosfera.
Anno 2031. Da 17 anni i pochi reduci al cataclisma atmosferico avvenuto a causa dell'errato comportamento umano (ancora una volta, dopo I figli degli uomini, il vero colpevole della propria fine è soltanto l'uomo) vivono su un treno, per l'appunto, lo Snowpiercer, che viaggia continuamente senza fermarsi mai, su rotaie ininterrotte che attraversano l'intera sfera globale, impiegando esattamente un anno intero a compiere l'intero percorso. La locomotiva, che si autoalimenta con il moto perpetuo e che è pienamente autosufficiente, è caratterizzata da un vero e proprio microcosmo umano: gli scompartimenti di testa sono occupati dalle classi sociali più agiate, a partire da Wilford il misericordioso (moderno Noè, genio creatore del treno salvatore), in un percorso a ritroso che arriva fino agli scompartimenti di coda, occupati dagli strati più poveri dei sopravvissuti, che vivono in condizioni di vita precarie e che sono tenuti strettamente sotto controllo dall'entità suprema, moderno Grande Fratello che tutto vede e tutto sente. La bestialità con cui i più poveri vengono trattati li spinge ad organizzarsi e a tentare più volte la rivolta, con l'obiettivo di raggiungere i vagoni anteriori della locomotiva e di tentare un dialogo con Wilford.
Snowpiercer è il primo film americano di Joon-ho Bong, il più costoso lungometraggio della storia del cinema coreano e vanta un cast di primo livello che comprende l'eroe Chris Evans, il suo fido agnello sacrificale Jamie Bell, un severo John Hurt e la straordinaria Tilda Swinton, che aggiunge uno dei personaggi più caricaturali, grotteschi e macchiettistici alla galleria dei villain cinematografici di tutti i tempi. Passato in sordina negli Usa e acquistato dai fratelli Weinstein che premono però per dei tagli considerevoli contro cui il regista sta combattendo una vera e propria crociata, Snowpiercer è stato presentato in anteprima internazionale all'ottava edizione del Festival del Film di Roma e si è meritatamente guadagnato il titolo di una delle migliori opere presentate durante quest'ultima edizione.
Ambientato in un futuro distopico, non lontano, per estetica granulosa, oscura e lurida, da alcuni

capisaldi del genere fantascientifico quali Blade Runner, Alien, Matrix e I figli degli uomini, Snowpiercer è un film di genere ad alto contenuto proteico, in cui il regista è riuscito a gestire pienamente il ritmo complessivo, inserendo una serie di accelerazioni e di momenti che bloccano il fiato, proiettando lo spettatore nell'universo filmico da lui creato e stimolando una piena identificazione con i personaggi che popolano la locomotiva a cui i fruitori sembrano unirsi, nella lotta che li condurrà dai vagoni posteriori alla testa del treno, alla ricerca di un riscatto sociale che porti la giustizia all'interno del microcosmo umano che vive in uno stato di stasi da ben 17 anni. Perché Joon-ho Bong non ha portato in scena sulla locomotiva semplicemente la tragedia dei sopravvissuti al disastro climatico ma, soprattutto, la storia dell'umanità condensata in 126 minuti al cardiopalma, in un contrasto dicotomico tra mondo dei ricchi e mondo dei poveri, in rivolta ed alla ricerca dell'eguaglianza sociale, mera chimera irraggiungibile perché la disparità sociale è il presupposto basilare su cui si fonda l'esistenza umana. Ecco che, in condizioni disperate, in questa corsa verso la testa del treno alla ricerca di un riscatto sociale totalmente laico da raggiungere in questa vita (Wilfred il misericordioso viene anche pregato dai passeggeri, ma non ha tempo per rispondere personalmente e per consentire un miglioramento delle loro condizioni di vita, moderno Dio in carne ed ossa), il percorso è strutturato secondo una serie di livelli in cui la difficoltà aumenta gradualmente, seguendo lo schema di un videogame, vale il concetto dell'"Homo homini lupus" in uno stato di natura più organizzato di
 

quello originario proposto da Hobbes, secondo cui la natura è egoistica e a determinare le azioni dell'uomo è il principio di sopravvivenza. Ognuno vede nell'altro un nemico da eliminare, in un continuo bellum omnium contra omnes, in cui non esiste la ragione ma solo il diritto di ognuno sul proprio simile. In questo stato di guerra perpetuo, l'unica modalità per placare le acque e portare la situazione in uno stato di calma (apparente) consiste nell'organizzazione della società in classi che, quanto meno, anche se basata su una serie inevitabile di ingiustizie sociali, assicura al mondo di andare avanti. E' questa l'idea di base che spinge il progetto di Wilfred, su cui si fonda l'equilibrio della sua locomotiva, buia caverna platonica da cui, prima o poi, l'uomo attende di uscire alla scoperta della copia differenziale dell'universo delle idee e di raggiungere un nuovo ma momentaneo status sociale a partire da un necessario tracollo del precedente ma che, inevitabilmente, porterà al ripristino della situazione passata, in una sorta di eterna struttura circolare in cui inizio e fine coincidono. Unica nota dolente è il finale che lascia trapelare un filo di speranza, in netta antitesi a quanto visto durante tutto l'arco del lungometraggio e che finisce per stonare un po'. Un difetto di poco conto in un film che potrebbe divenire, secondo la modesta previsione di chi scrive, uno dei pilastri della fantascienza distopica.


Voto: ★★★★

CINEVOTI FESTIVAL DEL FILM DI ROMA



PLANES 3D di Klay Hall
★★
L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO di Giovanni Veronesi
★★1/2
SNOWPIERCER di Joon-ho Bong
★★★★
MANTO ACUIFERO di Michael Rowe
★★
DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Vallèe
★★★
LAS BRUJAS DE ZUGARRAMURDI di Alex de la Iglesia
★★★1/2
HER di Spike Jonze
★★★★
SONG' E NAPULE dei Manetti Bros.
★★★
ROMEO AND JULIET di Carlo Carlei
★★
FEAR OF FALLING di Jonathan Demme
★★★
I CORPI ESTRANEI di Mirko Locatelli
★★1/2
QUOD ERAT DEMOSTRANDUM di Andrei Gruzsniczki
★★
THE GREEN INFERNO di Eli Roth
★★1/2
AU BONHEUR DES OGRES di Nicolas Bary
★★★1/2
CASTELLO CAVALCANTI di Wes Anderson
★★★★
GODS BEHAVING BADLY di Marc Turtletaub
★★
BEAUTIFUL NEW BAY AREA PROJECT di Kiyoshi Kurosawa
★★1/2
SEVENTH CODE di Kiyoshi Kurosawa
★★1/2
THE HUNGER GAMES: CATCHING FIRE di Francis Lawrence
★★★
I TARANTINIANI di Maurizio Tedesco e Steve Della Casa
★★★
TIR di Alberto Fasulo
ANOTHER ME di Isabel Coixet
THE MOLE SONG-UNDERCOVER AGENT REIJI di Takashi Miike
★★★
LIKE FATHER LIKE SON di Hirokazu Kore-Eda
★★★★
BLUE PLANET BROTHERS di Takashi Miike
★★★
YOUNG DETECTIVE DEE: RISE OF THE DRAGON 3D di Tsui Hark
★★★
EL PALACIO di Nicolas Pereda
★★
THE SEVENTH WALK di Amit Dutta
★★★1/2
THE DISCIPLE di Ullrika Bengts
★★1/2
THE WHITE STORM di Benny Chan
★★★1/2

domenica 3 novembre 2013

MACHETE KILLS

di Matteo Marescalco

Machete is back. And kills again.
Il regista bambinone Robert Rodriguez riattinge dal suo gigantesco mondo fumettistico, portando per la settima volta sullo schermo la figura di Machete Cortez (comparsa nei quattro episodi di "Spy Kids"), in "Machete kills", secondo episodio della trilogia a lui dedicata, di cui fanno parte anche "Machete" e "Machete kills again...in Space!", saga sviluppata a partire dal fake trailer inserito nella seconda parte di "Grindhouse", omaggio di Tarantino e Rodriguez al cinema di serie B dei doppi spettacoli dell'America degli anni Settanta. Machete debutta sullo schermo cinematografico con l'omonimo film del 2010, presentato in anteprima alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia come proiezione di mezzanotte.
Dopo aver perso, nel primo film, la moglie e la figlia, uccise dal personaggio interpretato da Steven Seagal, aver smascherato il complotto ordito dal senatore corrotto portato sullo schermo da Robert De Niro, ed aver trovato, infine, la sua vendetta, Machete viene contattato dal Presidente degli Stati Uniti che gli affida l'incarico di stanare un pericoloso rivoluzionario messicano che ha intenzione, con l'ausilio di un venditore di armi, di scatenare una guerra globale.
Emerge ancora una volta, senza alcun filtro autoriale e serioso, la volontà di Robert Rodriguez di divertirsi facendo cinema e, viceversa, di utilizzare il cinema come strumento ludico ma, comunque, di affermazione di un coerente progetto di messa in scena che non viene mai meno nei suoi film. E, se andiamo a considerare l'affermazione di François Truffaut secondo cui "Fare un film (...) significa prolungare i giochi dell'infanzia", vi è la convinzione, a detta del sottoscritto, che a dirigere, montare, fotografare, produrre e musicare "Machete kills" sia stato il bambino presente nel corpo adulto di Robert Rodriguez, quello che, a tredici anni, all'uscita dalla proiezione di "1997: fuga da New York", ha detto "Anch'io sarei capace di girare quella roba!". Il giovane appassionato di cinema che, pur di trovare il denaro sufficiente per trasporre sullo schermo la sceneggiatura di quello che sarebbe stato il suo primo film, si è fatto rinchiudere in una struttura per ricerche sulla droga come volontario pagato per un esperimento clinico. Il "one-man film crew" che ha diretto, nel 1992 (lo stesso anno di debutto del fraterno amico Quentin), "El mariachi", fulgido esempio di cinema "Do It Yourself", film ripreso con due sole macchine da presa e con artigianali ed inventivi effetti speciali realizzati completamente nel profilmico. Il primo episodio di quella che sarebbe diventata la "Trilogia del mariachi" si è aggiudicato il premio del pubblico al Sundance Film Festival ed è diventato il film a più basso budget (è costato appena 7000 dollari) mai distribuito da una major. Rodriguez ha poi riportato questa esperienza nel libro "Rebel without a Crew: or how a 23-year-old filmmaker with $7000 became a
 

Hollywood player", divenuto una bibbia per chi volesse approcciarsi al cinema in modo indipendente.
"Machete kills", per la gioia dei fan più esaltati ed estremisti, si apre con il trailer del futuro "Machete kills again...in space!" collocato in funzione di prologo, in pieno stile Grindhouse, che lascia presagire un terzo episodio all'insegna del divertimento e dell'ironia portati avanti fino al parossismo, in un divertissement fitto di citazioni e richiami cinefili. Con il simbolo dei Troublemakers Studios partono i titoli d'inizio, fumetti cromaticamente saturi e graffiati, realizzati sfruttando l'effetto pellicola rovinata e granulosa che era già stato utilizzato nelle sequenze più sanguinose e spinte di "Grindhouse: Planet Terror", che conducono direttamente alla prima macro sequenza che parte in quinta con una serie di scontri in una cavalleria rusticana in cui rimane vittima la donna di Machete, interpretata da Jessica Alba, per l'omicidio della quale viene catturato lo stesso Clint Eastwood del pulp, che viene salvato dalla gogna grazie ad una telefonata in extremis da parte del Presidente degli Stati Uniti, interpretato dal debuttante Carlos Estevez (il vero nome del gigione Charlie Sheen), che gli affida una missione fondamentale per la sorte del mondo. "Machete kills" procede in un'esplosione di colori, di colpi d'arma da fuoco, di battute ironiche che colpiscono tanto quanto i proiettili, di straordinarie situazioni paradossali e cambi di scena e "twist ending" che, a volte, eccedono e confondono lo spettatore, che dovrà ricollegare tra loro gli scollegati fili di una trama irrisolta ed irrisoluta che sembra passare in secondo piano rispetto alla cura ed al mantenimento dell'atmosfera ironica ed "esuberante" lungo tutto l'arco del lungometraggio. I film di Robert Rodriguez sono difficilmente catalogabili e non possono essere semplicisticamente rinchiusi dentro gli stretti confini di un semplice genere cinematografico, risultando come un melting pot di atmosfere e situazioni; "Machete kills" si avvicina molto ad uno dei più "classici" generi del cinema americano, il road movie, in cui, spesso, il movimento fine a se stesso è il movente ultimo che spinge (anche incosciamente) i personaggi, movimento che è alla base dello spettacolo cinematografico, il cui dinamismo è solo un'illusione generata da staticità in rapida successione, oltre ad essere l'elemento fondamentale del cinema attrazione, quello delle origini, tutto basato sulla centralità del moto del corpo umano e degli elementi che con esso interagiscono. Rodriguez, quindi, dietro la linea di sviluppo superficiale strettamente legata al mero ludismo del film action con effetti di serie B, intesse una ripresa dei caratteri peculiari del Cinema che fu, in una riflessione metacinematografica volta ad un ritorno al cinema puro, a partire dalla stessa etimologia del termine κίνημα (movimento). Purtroppo, però, "Machete kills" risente di un certo sbilanciamento complessivo, causato dalla volontà dello sceneggiatore di intrattenere, costruendo una storia eccessivamente satura di colpi ad effetto e di personaggi poco approfonditi, che alza decisamente l'asticella del trash rispetto a "Machete" e che risente di una minore trattazione di temi socialmente importanti, come quello fondamentale del difficile rapporto tra USA e Messico e della tratta di immigrati che avviene lungo il confine tra i due Paesi, così lontani così vicini.

Il punto di forza è il solito Danny Trejo, (anti)eroe involontario dallo sguardo monocromatico e costantemente cagnesco. Se il Clint Eastwood di Sergio Leone aveva due sole espressioni, quella con il cappello e quella senza cappello, l'eroe della frontiera di Rodriguez può vantare di averne una sola, una maschera anticamaleontica che fa il verso al tradizionale protagonista dei film d'azione, sempre padrone e pienamente responsabile delle proprie azioni, orientato verso il pieno compimento di sè e la risoluzione totale della vicenda. Latin lover contro la propria volontà, Machete parodia, in modo abbastanza evidente, il Terminator di Arnold Schwarzenegger, robottone programmato per compiere la propria missione, corrispondenza che diventa evidente, soprattutto in questo secondo episodio, per le battute fulminee (per l'appunto, quasi robotiche) e per lo stile di recitazione sempre più da stone face.
Il film, in definitiva, risulta una parodia di una parodia ed orienta la trilogia verso un inevitabile climax ascendente che caratterizza ogni singolo elemento messo in scena. Pienamente consigliato a chi ha apprezzato gli altri lavori di Robert Rodriguez e sguazza nel suo esaltato immaginario cinematografico. Tutti gli altri che si prendono un pò troppo sul serio è meglio che si diano ad altro. A noi, fan dell'uomo dal cappello texano, non resta da fare altro che aspettare con ansia la successiva missione spaziale di Machete.
Perchè, una cosa è certa: Machete will kill again.

Voto: ★★


lunedì 21 ottobre 2013

BEFORE MIDNIGHT

di Matteo Marescalco


Era il 1995 quando Richard Linklater ("School of rock", "Fast food nation", "A scanner darkly") ha portato sullo schermo, per la prima volta, la storia di Jesse e Celine (interpretati da Ethan Hawke e Julie Delpy), due ragazzi (lui è americano, lei francese) incotratisi casualmente su un treno per Vienna, nel film "Before sunrise" che prende il titolo dal tempo trascorso insieme dalla coppia, dal pomeriggio fino alla successiva alba, con la promessa di ritrovarsi dopo sei mesi alla stessa stazione ferroviaria. Nel 2004, Linklater, Hawke e la Delpy hanno rimesso mano alla storia dei due amanti per caso, scrivendo il secondo episodio della trilogia di Before, "Before sunset", ambientato nove anni dopo, trascorsi senza che i due si siano mai rincontrati, a Parigi, dove Jesse, ora sposato e con un figlio, è venuto a presentare il suo romanzo parzialmente autobiografico, incentrato sulla storia di due ragazzi che passano una sola magnifica notte insieme. Tra il pubblico c'è anche Celine, che è arrivata notando l'evidente somiglianza tra la vicenda reale e quella narrata nel libro. Anche se è trascorso un arco di tempo notevole, i due stanno insieme per un'altra intera giornata (fino al tramonto). Il finale è nuovamente aperto. Nel 2013, regista ed attori principali, per la seconda volta nove anni dopo l'ultimo episodio, rifocalizzano la loro attenzione sulla vita di Jesse e Celine, che vivono insieme e hanno due figlie. Dopo Vienna e Parigi, le riprese si spostano in Grecia, dove la famiglia dello scrittore e docente universitario trascorre una vacanza in uno scenario favoloso e romantico, in compagnia di alcuni amici e dove cominciano ad emergere i primi problemi di coppia.
Richard Linklater è uno degli autori americani che sono riusciti abilmente a costruire una poetica off-Hollywood, perseguendo un proprio stile visivo e narrativo, distante dalle tendenze più convenzionali del cinema americano contemporaneo.
"Before sunrise", "Before sunset" e "Before midnight" possono essere fenomenicamente etichettati come dei film romantici, che riescono a parlare di sentimenti universali, rivolgendosi a tutti, senza mai cadere, però, nello stucchevole e nel lacrimevole. Chi è rimasto catturato dalla progressiva

vicenda romantica di Jesse e Celine, due giovani come tanti altri, non poteva che attendere con ansia la naturale evoluzione della loro storia che dopo diciotto anni giunge al termine. E, a parere di chi scrive, la scelta di seguire, quasi con la stessa attenzione microscopica di un entomologo, la storia dei due ragazzi per diciotto anni, dai loro vent'anni ai quarant'anni circa, non è del tutto casuale, ma potrebbe essere stata determinata dalla volontà del regista e degli sceneggiatori di porre termine alla trilogia dopo tutti questi anni per sfruttare allegoricamente l'età dell'ipotetico raggiungimento della maturità. Gli stessi tre titoli non si riferiscono unicamente alle varie parti della giornata, ma assumono un senso più profondo, divenendo fondamentali nell'intero disegno progettuale: l'alba della giornata coincide, ovviamente, con l'età adolescenziale, densa di speranze da riversare nel giorno che verrà, così come il tramonto non viene utilizzato per indicare la fine del rapporto amoroso ma il trampolino di lancio verso il suo perfetto compimento, da individuare nelle ore vicino alla mezzanotte, l'età adulta. Ogni episodio della trilogia è caratterizzato, oltre che dalla coincidenza tra tempo reale e tempo finzionale (i due personaggi fittizi sono invecchiati come gli attori che li interpretano), da una diversa ambientazione che viene ulteriormente esaltata da differenti scelte fotografiche che sfruttano quanto più possibile gli elementi naturali ed artificiali con cui entrano in relazione Jesse e Celine e consentono di individuare nel paesaggio circostante il terzo elemento protagonista.
"Before midnight" presenta gli stessi caratteri peculiari dei due precedenti episodi: fitti dialoghi tra i due protagonisti, le cui lunghe passeggiate vengono tallonate dal regista tramite lunghi piani sequenza, che discorrono di Vita e Morte, di affari personali e di speranze, di lavoro, famiglia, obiettivi raggiunti e speranze infrante, dell'essere genitori, di realizzazioni professionali e della vita di tutti i giorni, elementi che si ergono a simboli della debolezza e dei punti di forza di qualsiasi essere umano. L'elemento principale a cui si può maggiormente deputare l'unanime consenso critico e pubblico della trilogia è da rintracciare proprio nei meccanismi identificativi che sono messi in moto dalla storia messa in scena: le vicende di Jesse e Celine simboleggiano le vicende universali che riguardano tutti noi. La storia di questi due ragazzi che si incontrano, chiacchierano e si innamorano è la storia d'amore onirica che ognuno di noi avrebbe voluto vivere. L'immediatezza documentaristica
 

del film rende impossibile non riconoscersi in questi due personaggi, nelle loro ansie, nel dolore che si provocano e nelle piccole recriminazioni cui vanno incontro.
Per quanto riguarda la costruzione narrativa, "Before midnight" sfrutta la presenza di un maggior numero di personaggi, che interagiscono con i due protagonisti, rispetto agli episodi precedenti e nella costruzione dialogica si avverte una maggiore presenza di trovate ironiche che velocizzano gli scambi tra Jesse e Celine. Interessante il lavoro fotografico che ha puntato ad un netto contrasto tra i colori caldi delle ambientazioni paesaggistiche, sfruttando, a volte, l'illuminazione in controluce ed un generale raffreddamento della passione amorosa. Sul versante interpretativo, la crescita di Julie Delpy non è andata di pari passo a quella di Ethan Hawke, eterno ragazzino, che non è riuscito a dimostrare la stessa maturità portata in scena dall'attrice francese.
"Before midnight" rappresenta la giusta e calibrata chiusura di questa trilogia che può essere definita, a seconda dei singoli episodi, magica-onirica-realistica, che ha fatto sognare e che farà sognare varie generazioni, con Jesse e Celine che, in fin dei conti, sono le persone a cui idealmente tendiamo, senza però raggiungere mai le loro vette di maturità ed immaturità e una delle coppie che è entrata con più prepotenza nell'immaginario collettivo, come solo il Cinema consente di fare.


Voto:★★

domenica 13 ottobre 2013

ANNI FELICI

di Matteo Marescalco 
"Indubbiamente, erano anni felici. Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto". E' questa l'indulgente frase finale pronunciata da Daniele Luchetti, divenuto, per l'occasione, voce narrante, nel suo ultimo lungometraggio "Anni felici", il cui titolo originale sarebbe dovuto essere il più lirico ed evocativo "Storia mitologica della mia famiglia".
La vicenda è ambientata negli anni '70, fondamentali per la spinta propulsiva di carattere antropologico-culturale che li ha caratterizzati, ed è ripercorsa dallo sguardo fanciullesco di Dario Marchetti (in cui il regista romano ha trasfigurato il suo punto di vista), che vive quegli anni tra liti e riappacificazioni familiari, in un periodo che può essere definito come l'adolescenza italiana, tra dubbi, turbamenti e prime certezze. Fondamentale è stato, nell'infanzia di Daniele, il rapporto burrascoso tra i due genitori, che viene portato in scena in modo ironico e triste, con sferzate di cattiveria volte, però, non a ferire realmente ma solo a sfiorare. Il padre, interpretato magistralmente da un Kim Rossi Stuart in grado di trasmettere una vasta gamma di emozioni attraverso semplici modulazioni del tono vocale, è pittore e scultore sui generis e si dedica ad installazioni visive avenguardistiche più per moda dei tempi che per una vera e propria vocazione artistica, e la madre, interpretata da Micaela Ramazzotti, in costante bilico tra felicità e tristezza, spensieratezza e vuoto interiore, teme, a ragione, che il marito la tradisca con le modelle per le sue opere scultoree. In questo contesto incerto si muove il giovane Daniele Luchetti, alla ricerca, così come il bel Paese, di una via di indirizzo da imboccare e della propria identità.
"Anni felici", presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, chiude l'ideale trilogia che era stata aperta nel 2007 da "Mio fratello è figlio unico", trasposizione de "Il fasciocomunista" di Antonio Pennacchi, e che aveva avuto l'acme di consenso di critica e pubblico nel 2010, con "La nostra vita" che ha fruttato la Palma d'Oro alla Miglior Interpretazione Maschile ad Elio Germano. Questi tre episodi neorealisti, pur presentando vari tratti differenziati, sono caratterizzati da alcuni elementi peculiari comuni, che tornano sia a livello di messa in scena sia di sviluppo narrativo. Se ciò che salta all'occhio, nella costruzione formale delle sequenze, è il predominio della macchina da presa a mano che frammenta lo spazio filmico, contribuendo a potenziare la sensazione di spigolosità, di durezza e di immediatezza quasi documentaristica, e, per quanto riguarda la sceneggiatura, il fatto
che la trilogia focalizzi la propria attenzione e quella degli spettatori su una difficile situazione familiare senza apparenti vie d'uscita felici, che viene sussunta alla rispettiva dimensione storica, è anche evidente che ogni singolo episodio presenta differenti modalità di sviluppo e di approfondimento tematico, che tuttavia conducono, più o meno, alla medesima conclusione. E' come se Luchetti abbia fatto scaturire da un punto comune le tre situazioni di partenza, che poi trovano tre diverse possibilità di sviluppo e si incanalano, infine, sulla "retta via" delle soluzioni finali che tornano, seguendo una sorta di struttura romboidale, a coincidere nello stesso punto, che rappresenta una tregua, una situazione non risolta ma semplicemente in stand-by. In "Mio fratello è figlio unico" il fulcro della vicenda è costituito dal difficile rapporto familiare tra due giovani fratelli, uno fascista e l'altro comunista, inserito nel background storico, politico e sociale degli anni Sessanta-Settanta, tra rivolte operaie, confusione ideologica e anni di piombo. La contemporaneità, invece, fa da sfondo a "La nostra vita", drammatica vicenda di un operaio edile romano che perde la moglie e che si ritrova a badare da solo ai suoi due figli, sprofondando in un vortice di problemi e dubbi esistenziali. "Anni felici" sposta la riflessione di Luchetti sul contesto familiare in una dimensione altra, che si colloca nell'ambito emotivo-personale e che trova oggettivazione nell'assunzione del punto di vista del se stesso bambino, il cui sguardo filtra le vicende sociali che, per tale motivo, arrivano allo spettatore quasi attutite, private dei reali clangori roboanti. "Anni felici" è, quindi, un'opera semifinzionale, a metà tra fiction e costruzione oggettiva degli eventi, in cui la verità ed il ricordo rielaborato si avviluppano e la stessa scelta del regista di raccontare gli eventi con la propria voce narrante è una decisione che dimostra la commistione di questi elementi eterogenei. Purtroppo, però, la debolezza del film risiede proprio in questo, oltre che nella mediocrità di scrittura, argomento che merita un discorso a parte. "Anni felici" è un oggetto non identificato, un film che appare solo sfiorato dagli eventi storici del periodo e che scorre senza emozionare lo spettatore, in cui l'uso di inquadrature in soggettiva per potenziare l'identificazione spettatoriale con i personaggi sortisce l'effetto opposto, aumentando il divario tra schermo e fruitore e la voce narrante di Luchetti appare indecisa sul da
farsi, indulgente e buonista, con il solo obiettivo di rassicurare lo spettatore su ciò che sarebbe successo in futuro. Il regista romano non è riuscito a trattare la vicenda con il giusto grado di distacco, in modo quasi disinteressato, né penetrandola fino in fondo, trasportandoci al cuore pulsante ed emozionale di essa. In "Mio fratello è figlio unico" si respirava l'atmosfera degli anni Settanta, si vivevano quasi in prima persona le ansie ed i tormenti dei personaggi finzionali, con la giusta dose di ironia e al contempo di distacco disincantato. "Anni felici" sembra aver costruito degli anni Settanta innocui, quasi paradisiaci, idealizzati all'eccesso e le atmosfere proprie di quegli anni sono descritte in modo forzato e banale perché sature dei più tipici luoghi comuni che non stati evitati dalla scrittura seriale di Stefano Rulli e Sandro Petraglia. La delineazione dei personaggi, che finiscono per incarnare dei veri e propri tipi fissi (il personaggio dell'artista d'avanguardia interessato unicamente a portare avanti la sua idea di arte indipendentemente dal guadagno economico che ottiene e che non lo tange, il difficile rapporto con la madre severa che lo ha caricato di aspettative e ha orientato in negativo la sua esistenza, la figura della moglie alla ricerca di un'emancipazione che appare più fittizia che reale e che non riesce a lasciare il marito, nonostante sia consapevole dei suoi plurimi tradimenti), risente di un'eccessiva stereotipizzazione che li rinchiude in gabbie costrittive, in una fissità antievolutiva da cui faticano ad uscire, alla ricerca di una minima evoluzione che tarda ad arrivare perché, paradossalmente, snaturerebbe i personaggi dal ruolo statico per cui sono stati costruiti. "Anni felici" non riesce ad eguagliare la spensieratezza densa di oscuri presagi di "Mio fratello è figlio unico" né la ruvidità drammatica de "La nostra vita", affermandosi come una nostalgica revisione degli album e dei filmini famigliari con l'obiettivo di rivivere, in una sorta di revival, un'epoca passata sommamente responsabile di ciò che ognuno di noi è e sarà.

 
Voto: ★★1/2


domenica 29 settembre 2013

THE WORLD'S END

di Matteo Marescalco

"Dei gesti compiuti in quegli anni, quasi non ve n'è uno che più tardi non vorremmo sopprimere, mentre ciò che invece dovremmo rimpiangere è di non possedere più la spontaneità che ce li faceva compiere. Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme a quello del resto della società, ma l'adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa". (Marcel Proust)


"The world's end" è l'ultimo episodio della Trilogia del Cornetto, ideata da Edgar Wright, Simon Pegg e Nick Frost, comprendente anche "Shaun of the dead" ("L'alba dei morti dementi"), una commedia romantica con gli zombie, e "Hot Fuzz", una commedia poliziesca. Ogni episodio della trilogia è caratterizzato dalla presenza di un Cornetto di colore diverso: in "Shaun of the dead", il Cornetto è di colore rosso, in omaggio al genere horror che viene parodiato, in "Hot fuzz" di colore blu per indicare l'elmento poliziesco, in "The world's end" verde, dal momento che si tratta di uno sci-fi. L'uso dei tre colori è un omaggio alla Trilogia Tre Colori di Krzysztof Kieslowski.
Cinque amici d'infanzia, spinti da Gary King, il personaggio interpretato da Simon Pegg, si ritrovano per ripetere l'epico pub crawl fallito della propria adolescenza. L'allegra compagnia, tra aneddoti e perdita progressiva di lucidità, si ritroverà ad affrontare una strana esperienza del terzo tipo, ai limiti del surreale.
Così come "This is the end", anche "The world's end" è un buddy movie dedicato all'amicizia maschile, con un gruppo di amici che, dopo vent'anni, si riunisce per ritentare un'impresa già tentata in età adolescenziale. A fare la voce grossa è Gary King, un Peter Pan in versione dark, voce fuori dal coro, alcolista sfaccendato ed eterno adolescente che non è riuscito ad orientare la propria vita verso la maturità.
La prima sequenza, dopo il flashback iniziale che ripercorre la magica notte dei cinque protagonisti, si apre con una movimento di carrello che presenta la versione adulta di quei cinque giovani che, nel lontano 1990, credevano di poter dominare il mondo. Edgar Wright ha delineato un percorso stilistico e tematico coerente, in cui ha portato avanti una vera e propria analisi sociologica, dietro la linea principale di sviluppo legata al genere messo in scena, basata sulla mostruosità dell'omologazione sociale quotidiana, che viene presentata come il vero elemento "spaventoso" del mondo contemporaneo, portata avanti e potenziata da uno smoderato processo di evoluzione informatica e digitale (in Romero, gli zombie rappresentavano l'avanzata del sistema capitalistico e consumistico) e ha qui realizzato una sorta di western contemporaneo contaminato dal genere sci-fi, basato sul contrasto tra individui adulti ridotti
ad entità simulacrali (civilization), in preda ad una standardizzazione ed omologazione deprimente e mortifera che riduce, rispettivamente nei tre episodi, a zombie, ad individui acritici in cerca della perfezione assoluta e a robot e la purezza dello sguardo e del comportamento adolescenziale (wilderness), quando ogni cosa è lecita in nome di una virginalità ed autenticità legata allo sguardo puro e meravigliato (che riporta alla mente il boy wendersiano) e alla sperimentazione di esperienze vitali. "The world's end" è anche un film sulla mania degli adulti disincantati di guardare al proprio passato adolescenziale mitizzandolo, e ai giovani se stessi come a degli eroi della vita quando ci si comportava come se si fosse immortali. In tutti e tre gli episodi della trilogia ritorna centrale il pub come luogo di ritrovo e di aggregazione oltre che di risoluzione della vicenda, così come l'attenzione coreografica verso la realizzazione delle scene madri, tutte d'azione. Wright e Pegg hanno realizzato un film che, a differenza del precedente "Hot fuzz", punta meno allo stomaco e più al cervello, con la sua riflessione sugli effetti negativi provocati dalla globalizzazione e da un artificiale processo evolutivo (che, così come è avvenuto, porta ad un inevitabile world's end) che qui viene demistificato perchè, in realtà, ha condotto alla morte dell'individualità soggettiva in nome della costruzione di una cooperante comunità globale, e dei rapporti interpersonali nell'epoca in cui il PC domina incontrastato, creando
una vita alternativa in rete in cui trovano spazio delle copie differenziali-zombie di noi stessi. "The world's end" è, in un certo senso, un film parallelo ma opposto a "The perks of being a wallflower" ("Noi siamo infinito"): in questo si guarda all'adolescenza con lo sguardo disincantato dei giovani; nel film di Wright, un gruppo di adulti poco cresciuti guarda alla propria adolescenza, desiderando tornare a quell'età in cui si è privi di responsabilità e si eroizza una serata di sbronza con gli amici, sviluppando sentimenti legati al ritrovamento sofferto del tempo perduto e del ricordo e alla rievocazione malinconica del proprio passato.
La sceneggiatura è poco equilibrata nella delineazione dei personaggi, alcuni dei quali risultano poco approfonditi sul piano psicologico (su tutti, i fratelli Chamberlain), qualche cosa nell'ingranaggio del rapporto uomini/robot non torna perfettamente e alcune gag allentano il ritmo, risultando forzate. Nel complesso, rispetto agli altri due episodi della trilogia, "The world's end" è un film meno divertente ma più riflessivo, con un finale un po' pasticciato e forzato.
Alla fine, l'unica cosa possibile è l'esplosione-implosione di questo falso universo adulto e simulacrale in cui i veri valori (l'amore e l'amicizia) sono stati dimenticati ed il ripristino di un equilibrio alternativo in un mondo da rifondare.

 


Voto: ★★★

domenica 15 settembre 2013

MOOD INDIGO - LA SCHIUMA DEI GIORNI

di Matteo Marescalco
 
"Mood Indigo - La schiuma dei giorni", tratto dall'omonimo romanzo surreale di Boris Vian, segna il ritorno di Michel Gondry dietro la macchina da presa, due anni dopo aver diretto "The Green Hornet" e, per la seconda volta dopo "Human Nature", senza curare anche la sceneggiatura, la cui stesura è stata affidata a Luc Bossi.
Il lungometraggio è incentrato su Colin, interpretato da Romain Duris, un giovane uomo talmente ricco da non lavorare e da passare intere giornate a casa in compagnia di un cuoco che lo accudisce e di un topo. Ad una festa, si innamora di Chloè, interpretata da Audrey Tautou, una ragazza che decide di sposare. In preda alla felicità, convince anche il suo amico fraterno Chick a sposare la donna amata, offrendogli in dote una notevole quantità di denaro, dote che verrà impiegata nell'acquisto delle opere del filosofo esistenzialista Jean-Sol Patre. Ma non tutto ciò che luccica è oro...Chloè infatti si ammalerà di una ninfea polmonare e Colin, in preda ad un folle dolore, spenderà tutte le proprie ricchezze per pagare le cure alla moglie.
Secondo le previsioni, il regista francese Michel Gondry (autore delle splendide liriche visionarie "Eternal sunshine of the spotless mind" e "L'arte del sogno") sarebbe dovuto essere perfetto per trasporre sullo schermo il romanzo visionario, eccentrico ed onirico di Boris Vian. Però, le aspettative non sono state soddisfatte, probabilmente a causa dell'eccessiva libertà creativa che ha caratterizzato questo progetto, costato 20 milioni di dollari.
Ogni cosa ha vita propria nel mondo multicolor di Gondry, tutti gli oggetti che popolano la casa di Colin sembrano animati in stop-motion, inni alla verve artigianale del cinema meliesiano, al mondo analogico e visionario del più grande inventore di sogni. Qui, però, si cade nell'autoreferenzialità e nel manierismo più scatenato, in un'esplosione parossistica di visionarietà scenografica che finisce
per incarnare un pastiche fine a se stesso. "Mood Indigo" assomiglia, per quanto riguarda lo sviluppo tematico, più ad "Eternal sunshine of the spotless mind" che a "L'arte del sogno" a cui, invece, "sottrae" molte invenzioni cromatiche e scenografiche, in completa antitesi al film del 2004. In quanto a colori e ad interpretazioni, infatti, "Eternal sunshine of the spotless mind" era giocato tutto in sottrazione, caratterizzato da una messa in scena quasi scarnificata, con particolare attenzione alla sovrapposizione labirintica di livelli temporali differenti, in cui trovava spazio un gioco d'alternanza tra ricordi, realismo soggettivo ed oggettivo. Ne "L'arte del sogno", la caotica esplosione cromatica ed estatica era pienamente giustificata e posta al servizio del tema trattato e dello sviluppo della trama. Qua, l'esplosione visionaria finisce per trasformare il film in una gigantesca seduta psicanalitica-onanistica, con una serie di sequenze contingenti che allungano a dismisura il brodo. A pagarne le conseguenze è la drammaticità della vicenda ed il rapporto tra i due personaggi che sono delineati in modo superficiale ed interpretati da Duris e dalla Tautou (non basta il suo solito sorrisetto artificioso per una buona performance) senza la profondità drammatica messa in scena dalla Winslet, da Carrey e Bernal e la fisicità ironica di Jack Black. Ciò che manca è una qualsiasi identificazione spettatoriale, non si crea empatia con i personaggi, non si gioisce e non si soffre con loro, non si vive il dramma con emozione. Paradossalmente, è un film talmente caldo (in modo fittizio) da risultare freddo. Gondry si perde in giochini insignificanti e fini a se stessi che non aiutano lo sviluppo della trama, facendoglielo perdere di mano.
"Mood indigo" è completamente sbagliato: nella costruzione, nella regia, nello sviluppo e nelle interpretazioni, elementi soffocati dall'ipertrofia creativa immotivata. E quello che succede alla fine del film è una delle peggiori cose possibili: si esce dalla sala "intatti" dalla tragedia dei due protagonisti, freddi, non sconvolti. Due ore di nulla. O di troppo nullificante. Fate voi.

Voto:★★

martedì 10 settembre 2013

IL CINEMA DI ALFONSO CUARON: IL ROAD MOVIE COME VIAGGIO METAFISICO VERSO UNA RI-NASCITA ESISTENZIALE

di Matteo Marescalco

«Io sono profondamente e coscienziosamente ateo, e non ho nessun tipo di problema religioso. Anzi, attribuirmi una tranquillità spirituale di tipo religioso è innanzitutto non capirmi, e poi offendermi. Non è Dio che mi interessa, ma gli uomini» (Luis Bunuel).

In anni recenti, i cineasti messicani hanno destato scalpore a livello mondiale. Tra loro, si sono particolarmente distinti Alfonso Cuaròn, Alejandro Gonzalez Inarritu e Guillermo Del Toro, con i rispettivi direttori della fotografia, Emmanuel Lubezki, Rodrigo Prieto e Gulliermo Navarro. Pellicole come La piccola principessa, Il labirinto del fauno, Amores Perros, Y tu mamà tambièn La spina del diavolo, uscite in sordina in tutto il mondo, sono riuscite a conquistare in breve tempo il cuore dei critici e degli spettatori.
I registi messicani si sono sempre affiancati al Cinema in modo particolare, utilizzando la Settima arte come pretesto per accostarsi ai problemi politici, sociali ed antropologici del difficile rapporto tra Stati Uniti e Messico, due mondi così vicini ma, in realtà, molto lontani, con l'uno a fare da colonizzatore e da sfruttatore e l'altro da vittima. Non stupisce, quindi, che autori quali Rodrigo Pla, Alfonso Cuaròn, Guillermo Del Toro e Alejandro Gonzalez Inarritu abbiano declinato il problematico rapporto USA-Messico nella narrazione dei rapporti tra mondi diversi, tra universo elitario, ma chiuso, e universo "popolare", ma aperto al nuovo ne La Zona (Rodrigo Pla); nella costituzione di un mondo favolistico ed immaginario in cui trovare evasione dalle brutture della vita (Il labirinto del fauno); nei rapporti cronologici tra passato-presente-futuro e nell'eterno ritorno del passato che non dimentica e perseguita (Alejandro Gonzalez Inarritu).

In modo particolare, il 51enne regista e sceneggiatore Alfonso Cuaròn, nei suoi film, è riuscito a delineare e a seguire un percorso stilistico e tematico coerente ed omogeneo, senza mai cadere nel banale o nel già visto. In quella che ribattezzeremo la  TRILOGIA DEL VIAGGIO (Y tu mamà tambièn, I figli degli uomini, Gravity), il regista messicano ha saputo sfruttare i meccanismi narrativi tradizionali di uno dei generi americani più classici, il road movie, che, dal 1969, con Easy rider di Dennis Hopper, è stato spesso utilizzato come metafora di un'erranza e di un cammino di ricerca interiore coincidente con il viaggio intrapreso dai protagonisti, che portasse ad una ri-nascita ed alla costituzione di un nuovo io. Genere iper-sfruttato di cui Cuaròn ha avuto il merito di allargare gli orizzonti tematici, intessendolo di ampi ed interessanti riferimenti filosofici, sfruttando il pensiero di autori quali Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger.
Tutti e tre gli episodi della Trilogia del viaggio sono caratterizzati da un viaggio, che diventa, man mano, sempre più mentale ed allegorico e che conduce verso se stessi, consentendo una ri-nascita e la costituzione di una nuova soggettività in rapporto al mondo fino a quel momento vissuto o da vivere da quel momento in poi. Ecco perchè, quando si parla del Cinema di Alfonso Cuaròn, è lecito parlare di cinema umanista ed antropocentrico.

Dopo aver diretto Solo con tu pareja e La piccola principessa ed essersi dichiarato profondamente deluso dall'esperienza americana di Paradiso perduto, Cuaròn è ritornato, nel 2001, in terra natìa per dirigere il dramma intimista Y TU MAMA TAMBIEN, incentrato sul viaggio (più che altro allegorico) che compiono due adolescenti, in compagnia di una cugina acquisita, per raggiungere l'immaginaria spiaggia di Boca del Cielo. Il periodo in cui l'adolescenza è agli sgoccioli è uno dei più interessanti da narrare, anche se il rischio di cadere nel ridicolo e nel racconto giovanilista è ben presente. Cuaròn riesce ad aggirare questo ostacolo, portando in scena un road movie (ambientato sullo sfondo di un Messico desolato e primitivo, quasi favolistico, nella cui delineazione, il regista messicano risente dell'influenza del realismo magico) in cui l'erranza autoreferenziale e autotelica del viaggio senza meta diventa oggettivazione della crescita interiore dei due giovani protagonisti, secondo i quali, la vita è fatta solo da effimere esperienze sessuali e alcooliche. Convinzioni che verranno teneramente scalfite dall'"inserimento", tra i due membri della coppia, di una donna più matura che traghetterà Tenoch e Julio verso l'età adulta e che li porterà a sperimentare una strana nostalgia e a diventare due sconosciuti, l'uno per l'altro. Il comportamento enigmatico di Luisa sarà chiaro soltanto nel finale, ambientato nella spiaggia di Boca del Cielo, in cui la donna si abbandona, in acqua, ad una nuova vita, trovando la morte come rinascita. Ecco che il regista messicano porta in scena due elementi cardine della sua riflessione filmica: l'acqua come elemento di catarsi, redenzione e di ri-nascita interiore e definitiva, ed il viaggio come strumento di dischiusione di un nuovo io.

E se in Y tu mamà tambièn, la carnalità è posta in primo piano, ed il raggiungimento della maturità è consentito tramite un percorso sessuale caratterizzato da varie tappe, ne I figli degli uomini si evitano scene sessuali, viene meno l'aspetto più "terreno", la catarsi è unicamente spirituale, il ritorno alla fertilità è consentito ma non tramite la costituzione di una nuova coppia. Presentato in anteprima alla 63esima Mostra del Cinema di Venezia, I FIGLI DEGLI UOMINI è tratto dall’omonimo romanzo di P. D. James.
Nell'ipotetico 2027, la razza umana è sull’orlo dell’estinzione perché da diciotto anni non nascono più
bambini e la scienza non riesce a capire quali siano le cause della dilagante infertilità. In una Londra infestata da frange nazionaliste violente che vorrebbero cacciare dall’Inghilterra tutti gli immigrati, Theo, ex attivista pacifico, ora semplice burocrate, si trova coinvolto con la ex moglie rivoluzionaria, Julian, nel salvataggio e nella protezione di una donna rimasta misteriosamente incinta, che potrebbe rappresentare un barlume di speranza per la continuazione della specie umana.
Ambientato in un futuro distopico, non molto lontano dal nostro, il film mette in scena, in una Londra disperata, anarchica e violenta, una tragedia per il genere umano. Sono passati diciotto anni dalla nascita dell’ultimo bambino, le scuole e i parchi sono vuoti, l’assenza di bambini ha trasformato il mondo in una no man’s land oscura, grigia, priva di ogni fede e speranza. Netta la contrapposizione tra benestanti e poveri: i primi continuano a vivere nelle loro enormi case, asettiche, piene di opere d’arte trafugate dai principali musei europei; i secondi vivono nelle strade, in un ambiente reso malsano dalla nascita di nuovi complessi industriali che rendono il panorama simile a quello dickensiano dell’industrial revolution, straordinariamente fotografato da Emmanuel Lubezki (direttore della fotografia di The Tree of Life, The New World e Birdman). Attentati si susseguono quasi quotidianamente e sembra che il silenzio ed il vuoto provocati dall’assenza di bambini siano stati colmati da rumori causati da raffiche di mitra ed esplosioni di bombe, simboli di un’umanità caduta irrefrenabilmente nell’abisso tragico, in un baratro di nichilismo ed anarchia. Gli immigrati vengono ghettizzati, rinchiusi in moderni campi di concentramento e sottoposti a varie torture, prima di essere espulsi. Il governo fornisce gratuitamente alla popolazione inglese il Quietum, un kit da suicidio. Si muove in questo contesto il protagonista Theo, (anti)eroe inconsapevole, che contribuirà in modo decisivo alla salvezza (?) del pianeta. Si noti come Theo non sia responsabile delle proprie azioni, ma agisca sotto i consigli della ex moglie Julian (nella prima parte del film) e spinto dal desiderio della giovane nera di salvare il proprio figlio (ironia della sorte, la speranza per una nuova umanità non viene da un’aristocratica english woman ma da una donna nera). Cuaròn ha anche il merito di aver costruito degli splendidi ritratti femminili, trasferendo nei suoi film il ruolo motore della donna nell’azione e nella narrazione (in Y tu mamà tambien, l'incontro con la donna porta i due giovani alla maturità; ne I figli degli uomini la donna gravida è circondata da un alone sacro, in Gravity, il compito di redimere l'umanità è affidato al personaggio interpretato da Sandra Bullock) tipico delle opere tarantiniane e almodovariane.
Il merito del regista sta nell’aver saputo creare un film fantascientifico privo di chissà quali effetti speciali che faccia riflettere sul presente proponendo una storia in un futuro di guerra, inquinamento, razzismo e violenza, decadimento del nostro presente. La tragedia che ha colpito l’umanità non è dettata da cause esterne, da un attacco alieno o da un cambiamento climatico repentino. Non è stata la natura a ribellarsi e a tradire l’uomo. Tale tragedia, come suggerito dal titolo, è figlia dell’uomo, che ha tradito e perso la propria natura. Cuaròn sembra volerci dire che l’uomo è diventato fin troppo apatico, distaccato e disinteressato all’amore e alle gioie quotidiane che ne derivano, attento solo allo sviluppo economico e al benessere materiale più che a quello psicofisico. «La faccenda dell'infertilità è solo un pretesto per il viaggio interiore e metafisico dell'eroe che passa da un atteggiamento apatico ad uno attivo» (Slavoj Zizek). 
La regia, caratterizzata da virtuosistici piani sequenza lunghi alcuni minuti, girati con telecamera a spalla (in alcune scene sporca di sangue) è ottima e funzionale alla storia. Spesso la macchina da presa segue il protagonista, come un inviato di guerra, trasformando il film in una sorta di documentario che acuisce il senso di incertezza e di claustrofobia. Notevoli sono gli ultimi venti minuti del film: il pianto di un neonato riesce a far bloccare momentaneamente gli scontri armati tra immigrati, esercito e dissidenti, non più abituati ad un tale prodigio della natura, e particolari sono i giochi di luce creati da Lubezki che fotografa in modo più luminoso le scene caratterizzate dalla presenza del neonato, simbolo della speranza ritrovata. E’arrivato un nuovo Salvatore? Non a caso, il gruppo attivista che protegge inizialmente la donna incinta è chiamato gruppo dei Pesci (termine di derivazione greca, ἰχθύς, acronimo di Gesù Cristo Salvatore figlio di Dio).
Un' ulteriore chiave di lettura può essere rappresentata dalla filosofia nietzschiana: in un mondo che gli uomini (gli uomini?) hanno reso inautentico, è necessario un annichilimento dei falsi valori tradizionali a favore di sentimenti dionisiaci, quantomeno autentici. Il bambino potrebbe quindi rappresentare l’Oltreuomo, profetizzato da Zarathustra, in grado di rifondare il mondo.

Il cast, in cui spiccano Clive Owen e Michael Caine, è ottimo e riesce a mettere in scena
la disperazione e l’emaciazione di questi uomini, vicini alla fine del mondo, alla loro fine. E’ difficile che un film catastrofico non sia trasformato in disaster movie e che ci sia un tale equilibrio: tutto merito del regista che ha saputo muovere in modo encomiabile la macchina da presa, ha scelto ottimi collaboratori tecnici ed ha saputo gestire un cast di prim’ordine ed una sceneggiatura che, forse, in 

mani altrui, avrebbe potuto dare risultati diversi. Il finale è enigmatico. Theo e Kee riescono a trovare una barca (secondo il filosofo Slavoj Zizek, è ottima la soluzione finale della barca, che non ha radici

e galleggia libera, condizione essenziale per il rinnovamento interiore) che li conduca alla nave Tomorrow. Le urla di bambini che accompagnano i titoli di coda che ci suggeriscono un ritorno del mondo al suo normale status, sono reali o rappresentano gli ultimi ricordi di un mondo ancora felice del morente Theo?
Qui, il rinnovamento passa attraverso la costituzione di una famiglia divina, con Theo (nomen omen), Kee (moderna Maria) ed il neonato Oltreuomo, con la barca che traghetta verso una nuova condizione esistenziale.



Un'angosciante e solitaria odissea di due soli personaggi isolati nello spazio, dalla durata complessiva di 92 minuti, con un piano sequenza iniziale di 17 minuti e 156 piani totali che stridono fortemente con i 1000/2000 richiesti, di solito, per realizzare un blockbuster del genere. Questo, e molto altro ancora è GRAVITY, che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Alfonso Cuaròn, che ha presentato, fuori concorso ed in anteprima mondiale, la sua ultima fatica, in apertura alla 70esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Per Cuaròn si tratta di un dolce ritorno al Lido: il regista di La piccola principessa e Harry Potter e il prigioniero di Azkaban aveva già presentato in Laguna i suoi precedenti lavori Y tu mamà tambien e I figli degli uomini, che aveva fruttato al direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, suo fido collaboratore, una più che meritata Osella al miglior contributo tecnico. 
Protagonista di Gravity è l'astronauta Ryan Stone, interpretata magistralmente, contro ogni aprioristica previsione, da un'androgina Sandra Bullock, che ha il pregio di reggere il film interamente sulle proprie spalle per più di un'ora, e che, affiancata da Matt Kowalski-George Clooney, lavora ad una serie di riparazioni di una stazione orbitante nello spazio. All'improvviso, una catena di sfortunati eventi imprevisti e di effetti collaterali scaraventa contro i due personaggi una tempesta di detriti che distrugge la loro stazione orbitale, eliminando ogni collegamento con Houston e lasciando i due astronauti a vagare da soli nello spazio e a cercare un modo per tentare il rientro sulla Terra.
La catena di imprevisti che ha colpito il film sembra, ironicamente, assai simile a quella che rende difficile i 90 minuti nello spazio alla dottoressa Stone: dopo cinque anni di lavoro, cambio di Studio (Cuaròn e il figlio Jonas avevano proposto la sceneggiatura, che, alla fine è stata acquistata dalla Paramount, alla Universal), svariati rifiuti e spostamenti progressivi del cast (il copione è stato proposto a Robert Downey jr., Angelina Jolie, Natalie Portman e Marion Cotillard), esce il film che entra di diritto tra le pietre miliari del cinema di fantascienza, con cui, volenti o nolenti, tutti i registi che gireranno d'ora in poi film di questo genere dovranno più o meno confrontarsi. 
L'affascinante incipit è un colpo al cuore: un lungo piano sequenza di 17 minuti, in cui la macchina
da presa, come fosse un vero e proprio oggetto di scena inserito in quel determinato momento in quel determinato contesto, danza in uno spazio privo di forza di gravità, gettandoci, anche per merito di una martellante colonna sonora, nell'universo angosciante del film. Straordinari sono i movimenti ondulatori e rotatori della cinepresa di Cuaròn e l'illuminazione in controluce di Emmanuel Lubezki, bravissimi nel valorizzare oltremodo la profondità di campo e nel distillare nel corso del film una dose di angoscia e di suspense che rendono Gravity sconsigliato agli agorafobici ed ai claustrofobici. Perchè, ciò che fa paura non è solo l'enorme buco nero dello spazio sconfinato, ma anche il sicuro cantuccio "domestico" dell'astronave, che non si rivelerà come un luogo in grado di proteggere l'astronauta Stone e di assicurarle il ritorno a casa. Secondo Alfonso Cuaròn: «C’è voluto del tempo e la sfida più grande era riuscire a far abituare tutto il cast, dai disegnatori fino agli attori, a pensare in una modalità differente. Il nostro cervello è abituato a ragionare in un ambiente gravitazionale mentre qui dovevamo cercare di descrivere al meglio uno spazio dove tutto risulta privo di pesantezza. Non abbiamo certo realizzato un documentario ma il nostro intento era quello di riuscire ad assorbire al meglio l’atmosfera di vuoto data dall’universo, per farla confluire poi all’interno dei personaggi. Questi ultimi vivono continuamente la metafora dello spazio: un gioco al massacro tra vita e vuoto, senso di morte e rinascita.»

Più che su un'odissea spaziale, Gravity è un'opera filosofica incentrata sull'odissea che vive ogni singolo essere umano durante la propria vita, continuamente bersagliata da detriti fatti non di materiale spaziale, ma di drammi personali, sconfitte, rinunce. Ecco che, a tal proposito, come ha ammesso il co-sceneggiatore Jonas Cuaròn, la genesi del film è caratterizzata da un doppio binario, da un lato, un percorso fatto di suspense, dall'altro una riflessione sulla vita mediante la terrificante solitudine dei due protagonisti. Il tutto perfettamente orchestrato da una sceneggiatura caratterizzata anche da improvvise sferzate di umorismo che alleggeriscono momentaneamente la situazione, e che stimola una piena identificazione spettatoriale, coinvolgendo sinesteticamente gli spettatori. Lo spazio, nel film di Cuaròn, è un non-luogo metafisico, mistico e straniante, che fa da apripista e da preludio ad un inevitabile cambiamento che non può non arrivare e che, qua, riguarda il personaggio interpretato da Sandra Bullock, donna dalle fattezze maschili, colpita, in passato, da un evento tragico che, ora, trova la sua più terrificante proiezione nell'oscura solitudine spaziale, che si configura come uno spazio fantasmatico che diventa oggettivazione dei traumi e dei dubbi personali, luogo di lotta tra la vita e la morte. Ed è proprio nel momento di massima sofferenza, abbattimento e delirio mentale,
di completo nichilismo e di sfiducia nei confronti del proprio passato, che l'uomo deve affermare la propria dignità, e che Ryan Stone è pronta a riscrivere il libro della propria vita, o meglio ancora, ad accettare, con un nuovo punto di vista, ciò che quel libro le ha riservato. Monumentale, a tal proposito, l'omaggio a 2001 Odissea nello spazio, con il piano in cui il corpo della Bullock (il Bambino delle Stelle) rotea placidamente in posizione fetale all'interno dell'astronave-grembo materno (che qui si rivela come uno spazio ostile che non può più proteggere dalle intemperie del mondo esterno), anticipando la rinascita e la nuova consapevolezza di sè tramite una serie di tappe che accompagnano la donna Ryan Stone (non più astronauta, semplicemente, essere umano) nel cammino dall'humus alla conoscenza. Il viaggio nello spazio è, qui, inteso come viaggio alla ricerca di un nuovo sè, come proiezione dell'ente individuale verso una nuova nascita che non può che avvenire in un territorio altro, oscuro, ostile, inesplorato, insensato, lontano dall'ipersemiotizzato universo terrestre.
Qui, e ne I figli degli uomini, l'Uomo si rivela tale in quanto dotato della possibilità di scelta, non è più l'heideggeriano e arrendevole essere per la morte che precede la nietzschiana ri-nascita del bimbo-oltreuomo profetizzata ed accompagnata da Zarathustra-Theo-Clive Owen, che qui trova il suo corrispettivo in Matt Kowalski-George Clooney, in grado di andare oltre e di non dare altri significati ad una nascita se non, appunto, quello essenziale di nascita, al di là del fatto che si tratti della venuta al mondo di un nuovo Salvatore in grado di salvare il mondo dal baratro di valori in cui è precipitato, tramite un sacrificio che porta all'aborto del vecchio ed inautentico sé.
E, ancora una volta, come in quasi tutti i film di Alfonso Cuaròn, il regista messicano focalizza l'attenzione sul viaggio e sull'acqua. In Y tu mamà tambien, il finale si svolge nella spiaggia di Boca del Cielo (che viene raggiunta dopo un lungo viaggio in auto), che è più un luogo mentale che un luogo vero e proprio, il luogo del giudizio, che, con la scomparsa tra le acque della protagonista femminile, trasporta i due giovani personaggi interpretati da Diego Luna e da Gael Garcia Bernal dall'adolescenza all'età adulta, tramite un inaspettato incontro con la morte, che sancisce anche la fine della loro lunga amicizia. Ne I figli degli uomini, la ri-nascita del genere umano è affidata ad un'esile barca che trasporta la donna nera ed il suo cocchiere alla ben più grande e stabile nave Tomorrow che dovrebbe, a sua volta, condurre l'umanità verso una nuova vita.
Applausi a scena aperta per Cuaròn che è riuscito, ancora una volta, a dirigere un film usufruendo dei meccanismi di genere e rielaborandoli in chiave filosofica, ha saputo mettere in scena un ipotetico (ed illusorio) viaggio mentale-cammino verso la conoscenza e la piena consapevolezza di un nuovo sè, sfruttando al massimo i meccanismi di una sceneggiatura tradizionale e del 3D che funzionano perchè ancorano saldamente lo spettatore alla storia e lo gettano nell'angoscioso vortice oscuro dell'infinito spazio della nostra esistenza.



In conclusione, è possibile affermare che, in ogni suo film, il regista messicano Alfonso Cuaròn, anche quando si è dovuto scontrare con le logiche produttive delle major, è riuscito a perseguire un coerente progetto stilistico e narrativo incentrato sul viaggio iniziatico ed allegorico di un personaggio, dal deserto dei sentimenti fino al giardino della rinascita universale, in cui il cambiamento del singolo si pone come primo passo per un cambiamento collettivo.